Alla Berlinale è arrivato – da Sundance – come uno di quei titoli imperdibili (sezione Panorama): star James Franco, versione icona queer warholiana per metà film capelli biondo ossigenato e collanine flou, produttore Gus Van Sant per raccontare la storia («vera») di Michael Glatze, attivista gay oggi «born again christian» ferocemente omofobo. I am Michael, opera prima di Justin Kelly, segue il cambiamento del protagonista, la vita a San Francisco, dove è caporedattore della rivista XY Magazine impegnatissima nella battaglia per i diritti dei giovani omosessuali, soprattutto adolescenti; la sua storia d’amore tenera e decennale con Bennett (Zachary Quinto, il Sylar della serie Heroes) che diventa un rapporto a tre quando la coppia incontra un ragazzotto gentile e muscoloso (Charlie Carver, Desperate Housewives).

La scoperta della religione, la lettura della Bibbia, i dubbi sulla sua sessualità fino al taglio netto dichiarando di avere vissuto fino a quel momento in modo «anormale» per raggiungere la scuola di formazione religiosa (vuole diventare pastore). Dove conosce la bionda figlia di famiglia cristianissima che diventerà sua moglie salvandolo (?) da ogni «ricaduta». Michael è insomma l’antitesi del gusvansantiano Harvey Milk (Milk), molto meno politicizzato anche per esperienze generazionali (oggi Glatz ha trentasei anni) che lo collocano in un contesto più individuale anche nel modo di intendere la battaglia per i diritti gay. Kelly nel film attraversa il paesaggio americano religioso di chiese, predicatori, bibbia e quant’altro ma narrativamente cerca le sue ipotesi altrove. Per esempio nelle angosce del suo personaggio ossessionato dalla morte e dall’ansia salvifica – anche quando è militante gay vuole «salvare» i ragazzini dalla paura della loro sessualità – la cui attrazione religiosa sembra esplodere quando incontra dei giovani cattolici omosessuali per un suo documentario. «No, non ho nessun problema» dice a Michael il ragazzo davanti alla chiesa.

Lui invece i problemi ce li ha: l’immagine del padre stroncato da un infarto quando Michael è ancora un ragazzino, tanto che alla prima palpitazione (dopo avere tirato una strisciona di cocaina) si convince di essere malato nonostante ogni analisi medica dica il contrario. La morte dell’amata madre, il bisogno divorante di eternità.
Kelly costruisce le metamorfosi del «suo» Glatz in modo poco lineare, ne asseconda la confusione, gli spaesamenti, i fantasmi, i salti di logica e la convinzione ostinata dell’assoluto. Film slabbrato, con molte imperfezioni, e un giusto tocco stupefatto di James Franco, I am Michael rende (forse anche per questo) con precisione la confusione della ricerca «spirituale» (e la mancanza oggi, in contrappunto di una dimensione politicamente collettiva). Michael prima di passare definitivamente alla Bibbia sperimenta la meditazione buddista anche se ormai il suo fanatismo religioso stride profondamente con la morbidezza di yoga e respirazione che pratica il suo giovane e occasionale amante costretto a allontanarlo perché non sopporta le sue farneticazioni bibliche.

Ma Kelly, e giustamente (Van Sant insegna) non cerca risposte nette e nemmeno giudica, diciamo che le contraddizioni del «personaggio» Glaze sono abbastanza esplicite, per esempio nella lotta col desiderio – quei corpi muscolosi e giovani sul bus contro il lampo mieloso del sorriso della fidanzata. Perché non è che le due cose sarebbero in contrasto ma lui ha iniziato la sua crociata, e ai ragazzini dice che l’omosessualità non esiste e che va soffocata. Meno male, che come uno sberleffo, i giovinetti sono più forti (e smaliziati) di lui.