«Sono felicissimo di essere in Concorso a questa Mostra veneziana. Non è certo la prima volta ma questa ha un valore diverso». L’italiano elegante e sobrio, come i suoi abiti, è oramai una felice consuetudine. Andrei Konchalovsky, da parecchio tempo, risiede in Toscana, (forse) ultima tappa delle sue peregrinazioni geografiche, ma con il suo ultimo Le notti bianche di un postino è tornato, dopo molti anni, nella Russia arcaica e magica che sembra resistere con forza alla macchina statale che circonda questi villaggi dalle tradizioni millenarie.

Si pensava, erroneamente, che la fonte di ispirazione del suo film fosse un articolo letto su internet che raccontava di un postino nella provincia russa. Quale è invece la vera origine del «Postino»?

Volevo analizzare in profondità la condizione umana e così ho cominciato a chiedermi quale corso di vita avrei potuto seguire per trovare una forma di racconto. D’improvviso ho pensato alla figura del postino perché capace di entrare in contatto con una moltitudine di persone e questo implicava un ottimo grado di osservazione della società.

Nel suo film elementi fantastici combaciano con la naturalezza dei luoghi e dei personaggi. Ha mai avuto la tentazione di girare con attori professionisti?

Quando ho cominciato il lavoro sulla sceneggiatura non ho sentito il bisogno di realizzare un film con attori professionisti anche se questi «attori che non recitano» sono sempre difficili da gestire. Quando guardi un documentario le immagini parlano da sole: le macchie di colore, il suono, gli elementi naturali contribuiscono a dare una sensazione reale. Un film invece è sempre un’imitazione, in alcuni casi una buona imitazione ma non cambia la sua natura di copia della realtà. Non cercavo dunque attori ma personaggi anche perché un professionista recita sempre mentre il personaggio vive.

È stato difficile trovare il suo postino e la gente della piccola comunità lacustre?

Non è stato semplice trovare il mio protagonista Ljokha. Abbiamo cercato tanti portalettere di campagna e lui era uno degli ultimissimi in lizza, quando ormai pensavamo di ricorrere a un attore. Per fortuna si è presentato quest’uomo buffo, senza denti e dalle parole incomprensibili e quando abbiamo visitato con lui il suo luogo di lavoro, abbiamo capito che si trattava della scelta perfetta. Ho girato nella provincia di Arcangelo, vicino al Parco Nazionale di Kenozero e per arrivarci si impiegavano tre giorni. Certo, non ho scelto questo luogo meraviglioso per la sua natura incontaminata ma perché lì viveva l’eroe del film.

Come è stato accolto dagli abitanti della provincia e come i protagonisti hanno reagito quando ha mostrato il film?

All’inizio la comunità mi guardava come un alieno ma in breve tempo io e la mia troupe siamo diventati parte integrante del luogo e in fondo è bastato solo offrire un po’ di vodka per conquistare la loro amicizia. Quando ho mostrato il film non si sono sorpresi particolarmente, in fondo erano personaggi ancora prima che arrivassi io.

Il film gioca continuamente con lo spettatore nel affinare sempre di più il confine fra sceneggiatura e concessioni al reale. Quanta libertà c’è stata sul set?

Avevamo una trama e una sceneggiatura ma è cambiata numerose volte in corso di riprese. Se un contadino usciva da casa sua per raggiungere la barca lo seguivamo, senza pensarci troppo, era una sorta di caccia al soggetto dove però nulla era confuso. Credo fermamente che la vera arte sia selezione, un lavoro complesso come un mosaico e le sue tessere. Jean Cocteau diceva ’La lente della macchina da presa è come l’occhio della mucca, imprime stupidamente quello che vede’ e sono perfettamente d’accordo: l’artista sceglie oggetti, colori, parole e poesia per poi accordare tutto. Le immagini non hanno valore in se ma la conoscenza arriva con la loro successione.

La sua è una carriera ormai cinquantennale, segnata da numerosi spostamenti geografici, di genere ed trasferte hollywoodiane. Questo film ha ampliato e amplificato la sua esperienza?

Ho sperimentato una libertà completamente diversa dai miei film precedenti, esplorando le potenzialità del fare un film con nulla e con pochissimo budget. Questo film mi ha fatto sentire come un romanziere con davanti soltanto dei fogli di carta e una penna, un’esperienza che credo possa giovare moltissimo sia ai veterani come me, sia alle nuove generazioni. La tendenza degli ultimi 50 anni ha spinto il cinema a un binario morto per colpa della ricerca spasmodica dell’immagine straordinaria mentre io credo che soprattutto i giovani d’oggi dovrebbero dedicarsi ai microcosmi, a non cercare il grande budget ma a realizzare piccoli film dal grande cuore. Un’artista per esprimere veramente se stesso non può e non deve pensare al denaro ma purtroppo è un circolo vizioso: più soldi sono in ballo e meno libertà si acquisisce.