«Dovresti dirle di chiudersi la camicia». Mi ero trasferita in India da talmente poco che ancora l’acqua di casa non aveva ingiallito la mia camicia bianca. La portavo con i primi due bottoni aperti, nel caldo insostenibile dell’estate indiana, a Connaught Place, storico centro commerciale della New Delhi britannica. Ero andata a comprare dei fiori — un bouquet di gerbere cosparso di brillantini dorati e tenuto insieme, come da tradizione, con del nastro adesivo. Terminato l’acquisto, il fioraio si rivolse al ragazzo che era con me, suggerendogli, con un improvviso sorriso supponente:

«Dovresti dirle di chiudersi la camicia». Non lo disse a me, che il mio scollo lo offendeva. Lo spiegò a un altro uomo, come se suo fosse il compito di disciplinarmi, di assicurarsi che la donna che accompagnava fosse presentabile.

Avrei dovuto arrabbiarmi e rispondergli che in alcun modo doveva permettersi di fare un commento del genere. Invece, mi sentii mortificata. Non dissi niente, mi abbottonai imbarazzata la camicia fino in cima, chiedendomi perché mi desse così fastidio doverlo fare, cosa mi spingesse a volermi scoprire. Mi chiesi, sentendomi colpevole, se fossi io a provocare i commenti dei tanti uomini per strada — non aggressivi, ma certo fastidiosi — che mi fissavano in continuazione, sussurrando fra loro e malcelando risolini ammiccanti.

Un episodio da niente. Pochi minuti e smisi di pensarci, pochi mesi e mi sarei talmente abituata ad avere gli occhi addosso da non accorgermene più. Avrei iniziato a vestirmi come volevo, sfruttando a pieno il vantaggio di essere una donna, sì, ma bianca. Nei quattro anni che ho vissuto a Delhi mi sono sentita in pericolo pochissime volte, e mai più di quanto non succeda in qualsiasi grande (gigantesca) città. Ho sempre percepito che il mio essere così visibilmente occidentale in una città indiana fosse uno scudo, una linea oltre la quale nessuno avrebbe osato spingersi. Nella cultura popolare le “gori” (le donne bianche) sono ritenute di facili costumi, ma incutono ancora un certo timore postcoloniale. Non fanno parte del territorio marcato da quegli uomini che in massa si sono riversati nelle città inseguendo le promesse della “new India”, portando con sé regole patriarcali che, con ancora più frustrazione di fronte al lento ma inesorabile cambiamento di tempora e more, cercano di imporre.

Quell’interazione con il fiorista è stata forse la sola volta in cui mi sono trovata nella stessa posizione delle mie amiche e colleghe indiane. Quella in cui uomini qualunque si arrogano il diritto di commentare, controllare, giudicare — cercando di contenere le spinte verso l’emancipazione attraverso velate (o meno) accuse d’immoralità. Una posizione in cui troppe giovani donne ambiziose si ritengono fortunate se i loro mariti “permettono” loro di lavorare. In cui devono dare conto delle loro amicizie a fratelli, padri, cognati. In cui, di fronte alle terribili notizie di aggressioni e stupri che, da anni, riempiono la cronaca quotidiana, le prime domande a essere sollevate sono sempre dov’era, lei?

Com’era vestita? E cosa ci faceva fuori, magari da sola, magari di sera? Come nel video satirico che da qualche giorno ha invaso i social media, lo stupro “è colpa tua”. È colpa delle donne che hanno perso il senso del “decoro”, delle abitudini occidentali, dei luoghi di studio e lavoro misti.

«È come se essere una ragazza fosse diventato un peccato», ha commentato in un’intervista con il Wall Street Journal il padre della vittima dello stupro di massa (e omicidio) che lo scorso dicembre ha improvvisamente sbattuto il problema della condizione delle donne in India, e a Delhi in particolare, in prima pagina. Ma non è il semplice essere una ragazza a essere considerato un peccato, e non certo da ora. Nella stessa terra in cui le donne hanno raggiunto i piani più alti (presidenti, primi ministri) prima e più che in molte altre parti del mondo, il peccato è ancora, nella quotidianità, il voler essere donne alla pari, esigere e con determinazione conquistare titoli di studio, lavori, stipendi, autonomia.

Come da sempre anche altrove, il tentativo di fermare il movimento a emergere di centinaia di milioni di donne passa per la violenza. Di padri e fratelli che uccidono figlie e sorelle colpevoli di matrimoni d’amore non condivisi dalla famiglia. Di uomini di caste superiori che ritengono di usare il corpo delle donne di caste inferiori come gli fosse dovuto. Di giovani frustrati incapaci di trattenere i propri impulsi. E di chi si ritiene nel giusto, come l’avvocato della difesa al processo per lo stupro di gruppo che ha dichiarato senza vergogna che brucerebbe la figlia viva se volesse uscire la sera o avesse rapporti prematrimoniali, consigliando a tutti i genitori di seguire il suo esempio.

L’India non è improvvisamente diventata un paese fondato su regole patriarcali, in cui le violenze cominciano ancor prima della nascita, con i tanti aborti clandestini o gli infanticidi per eliminare le figlie femmine. Lo è da tempo immemore, la misoginia è un problema antico. Delhi è notoriamente una città nemica delle donne, e da anni le notizie di aggressioni orribili sono ordinaria amministrazione. Quello che è nuovo è invece la denuncia della violenza. Mai negli anni passati si sono organizzate proteste per chiedere leggi che proteggessero le donne, per condannare le aggressioni. La sola che ricordo, una “Slut Walk” sulla scia di quelle d’oltreoceano, aveva visto una partecipazione minima.

Ma dopo l’episodio orribile di dicembre qualcosa sembra cambiato. Si è rotto il silenzio. Nella retorica spesso vuota della “più grande democrazia del mondo” è bastato che un caso suscitasse l’attenzione estesa della stampa, che della vita democratica resta organo vitale, per diventare il casus belli. Le donne e gli uomini che non vogliono più accettare la realtà di un’India contro le donne si sono riversati nelle piazze chiedendo provvedimenti, leggi, mostrando apertamente la propria indignazione.

La stampa internazionale — in colpevole ritardo, seguendo come di tradizione la storia del momento — riporta da allora nuovi, purtroppo frequenti, episodi di violenza. Contro le donne, a volte persino bambine. Ma non è segno di una situazione che si sta deteriorando, piuttosto il primo segnale verso un miglioramento. Se ne parla perché il problema è finalmente sotto gli occhi di tutti, e in molti non sono più disposti a ignorarlo. I casi di stupro e aggressione riportati sono aumentati perché si sta forse, poco a poco, abbandonando l’idea assurda che le vittime abbiano da vergognarsi, che siano colpevoli e debbano nascondersi.

Il dibattito che è nato negli ultimi mesi ha unito l’India al resto del mondo in un’ondata internazionale che sta riportando prepotentemente a galla il tema delle differenze di genere.

Le cause degli abusi contro le donne in India sono profonde — povertà, mancanza d’istruzione, tradizioni patriarcali — e vanno affrontate alle radici. I cambiamenti saranno lenti in una società che tratta le donne come diverse dalla nascita; che per proteggerle le isola in scuole separate, carrozze separate, file separate; che per dar loro opportunità finisce nello stesso paradosso delle caste e delle minoranze: nel garantire accesso privilegiato a certe posizioni, accetta, di fatto, la discriminazione. Non basterà scendere in piazza, e servirà a ben poco impiccare gli stupratori.

Ma questo è un momento importante e può essere una vera occasione di svolta. Bisogna tenere acceso il dibattito, anche all’esterno, e non dimenticarsene fino al prossimo caso eclatante. Senza fare le facce sconvolte come se il problema ci fosse estraneo. Perché non lo è (specie in Italia): la battaglia per fermare la violenza contro le donne è una sola e non si può dire conclusa finché non è vinta ovunque.