Tra pochi giorni le elezioni tedesche segneranno lo spartiacque per un probabile cambio della politica economica europea. Pur se la governance politica dell’Unione Europea rimarrà non molto dissimile, la governance economica potrebbe significativamente modificarsi con l’allentamento delle politiche di austerity.

Dopo sei anni di crisi, alla cui persistenza le stesse politiche di austerity hanno sicuramente contribuito, è necessario voltar pagina. Il motivo è semplice. Le politiche di austerity hanno raggiunto in buona parte i loro scopi e il loro perdurare rischia di colpire anche chi ne ha fatto una bandiera.
Nonostante quel che ci viene raccontato, non siamo in presenza di una ripresa economica. Al limite, dopo sei trimestri consecutivi di segni negativi (un vero e proprio record) è lecito attendersi un rallentamento, quasi fisiologico, del calo, verso una situazione più di stagnazione che di crescita.

Il mercato del lavoro, nel frattempo, ristagna, anzi peggiora. I paesi dell’Europa meridionale segnano livelli record di disoccupazione, soprattutto, di quella giovanile (il massacro di una generazione), ben oltre i valori ufficiali dichiarati, se si contano tra gli inoccupati, anche i cosiddetti «scoraggiati» e «mini jobs» (in Germania) e i «zero hours contracts» (in Gran Bretagna).

L’attuale situazione del lavoro in Europa è uno dei risultati vincenti delle politiche di austerity. La destrutturazione del mercato del lavoro è infatti uno degli obiettivi della politica economica recessiva che è stata pervicacemente perseguita dalla Germania e dalle autorità europee: la precarizzazione del lavoro e della vita tramite processi di mercificazione biopolitica dell’esistenza, la frammentazione del lavoro vivo e l’impossibilità di sviluppare capacità conflittuali, se non di mera resistenza.

Potere oligarchico

Tale risultato è stato possibile anche perché il pesante calo dei redditi, la precarizzazione crescente sotto il ricatto della disoccupazione e del bisogno hanno depotenziato la capacità conflittuale (invece di aumentarla). La crisi ha aumentato infatti l’eterogeneità sociale e dei movimenti degli stati membri dell’Unione Europea.

L’inesistenza di istituzioni rappresentative europee a tutti i livelli in grado di contrapporsi a tale deriva ma piuttosto inclini ad aumentare la divergenza e a definire gerarchie nazionaliste non ha che peggiorato la situazione. Si noti che tale processo sociale disgregativo (che ha alimentato anche forme di revanscismo localista, xenofobo e razzista in quasi tutti gli stati europei) è avvenuto nel mentre l’oligarchia economico-finanziaria, sotto l’egida tedesca, era in grado di promuovere un’omogeneità dell’azione politica e fiscale senza precedenti.

Paradossalmente, ma non troppo, si è contemporaneamente affermato un modello (regressivo, reazionario e neo liberista) di politica fiscale comune europea, con l’obiettivo di ribadire il primato della proprietà privata (contro il comune), della diseguaglianza (contro una più equa distribuzione del reddito), del lavoro precario (contro un reddito di base incondizionato), del saccheggio dello spazio e dell’ambiente e della mercificazione della vita (contro la possibilità di esercitare un potere decisionale autonomo per sé e per il proprio territorio).

Ma le politiche d’austerity e fiscali ora rischiano, se ulteriormente perpetrate con le stesse modalità recessive che le hanno definite fino a ora, di rilevarsi un boomerang, se non vengono mitigate dalla necessità di favorire comunque una ripresa economica. Il mantra della crescita – almeno a parole – è diventato la nuova emergenza economica. Se prima era il debito a definire la situazione emergenziale da cui tutto doveva dipendere, ora è l’aumento del Pil a essere la nuova ossessione emergenziale.

Non è un caso che alla minor valorizzazione del capitale multinazionale europeo si accompagna anche la perdita di importanza dell’Europa nello scacchiere internazionale. Vi è cioè anche una crisi di governamentalità politica che richiede un cambio di passo. L’Europa, oggi, al sesto anno di crisi, non solo ha perso la centralità economica ereditata dal fordismo, ma anche la centralità politica fondata sull’asse con gli Usa.

La salsa neoliberista

Difficile pensare che andare oltre alle politiche d’austerity sia condizione sufficiente (seppur necessaria) per uscire da questo impasse. Gli effetti strutturali di una politica economica miope e monetarista che nello strumento esclusivamente monetario e nel controllo dei debiti pubblici e esteri definiva i pilastri della propria governance tendono a essere irreversibili e irrimediabili per la stessa valorizzazione capitalistica. La generalizzazione della condizione precaria nel lavoro da un lato, la privatizzazione del modello europeo di welfare state, accelerati dalla crisi, dall’altro, non consentono infatti di poter sfruttare al meglio quelle economie dinamiche di rete e di apprendimento che oggi sono la base per la crescita della produttività e per l’innovazione tecnologica. L’esperienza del Sud America e la parabola economica di Cina e India (che vive, comunque, una situazione attualmente di impasse) mostrano che altri modelli economici sono possibili, pur con tutta l’ambiguità del caso.

Il modello europeo in salsa neoliberista ha oramai fatto il suo tempo: l’essere riusciti a impedire lo sviluppo di conflittualità (a differenza di altre regioni del globo) ha avuto un costo talmente alto da mettere in crisi lo stesso establishment europeo.