Il rilievo è l’arte di portare in primo piano delle figure scavando la materia circostante fino a farle emergere di poco (bassorilievo) o di molto (altorilievo). È una tecnica molto usata nella scultura antica, soprattutto in marmo, ma meno diffusa nell’età moderna. Che esista anche una pittura a rilievo, realizzata col meccanismo opposto di accumulare anziché togliere materiale, non sorprenderà i conoscitori di Frank Auerbach, ora in mostra alla Tate Britain di Londra (fino al 13 marzo 2016; catalogo a cura di Catherine Lampert, pp. 160, 120 illustrazioni, £ 24.99), con una personale fatta quasi solo di opere provenienti da collezioni private (tra cui un quadro di Sua Maestà con cui gli eredi di Lucian Freud hanno pagato le tasse di successione nel 2014). Il colpo d’occhio è magnifico: masse escrescenti di pittura a olio vengono incontro allo spettatore, imponendoglisi. Sono teste di donna e paesaggi urbani che chiedono di essere toccati anziché guardati: la sagoma si coglie solo a distanza, ma da vicino prevale l’informe plasticità dell’accumulo. Il colore si addensa e fuoriesce dal piano, fino a fagocitarlo: pittura da mangiare e che mangia, a ricordarci il materialismo di Feuerbach per cui «l’uomo è ciò che mangia».
Restituire la fisicità dell’essere è certamente l’obiettivo del primo Auerbach, all’altezza degli anni cinquanta (è nato nel 1932); ma anche rendere la fisicità del lavoro dell’artista, che è fatto della fatica materiale di depositare il colore sulla tela e ripetere il gesto fino a costruire un ammasso che prende forma per addizione. La pittura scappa dalla tela e invade il mondo, come un mostro che prima non esisteva e ora c’è, a scioccare la nostra percezione e la nostra conoscenza. Come lava sputata da un’eruzione, la materia che veniva da fuori sembra voler tornare, trasformata, cioè avendo acquisito forma, e quindi vita, al mondo da cui proviene. Allievo di David Bomberg al Borough Polytechnic (ora London South Bank University) dal 1947 al 1953, Auerbach ne ha di certo assorbito la vocazione figurativa e la tensione plastica, all’ombra del vorticismo: tutt’altro che spontanei, i suoi quadri sono il risultato di lunghissime elaborazioni, in cui la pittura o copre strati precedenti o viene rimossa per creare ex novo. Aggiungendo o togliendo, comunque Auerbach fa della materia il centro del suo lavoro, lasciando che l’immagine ne sia il risultato anziché il fine.
Si distende progressivamente, la sua pittura, col passare degli anni (divisi, insopportabile bisogno classificatorio dei curatori, per decenni), ma i soggetti sono sempre gli stessi: due soli paesaggi londinesi (Mornington Crescent e Primrose Hill) e tante teste di donna. Variazioni sul tema, senz’altro, che sembrano contraddire la richiesta dell’artista di guardare le sue opere ciascuna come unica in sé. Auerbach diventa infatti nel corso del tempo un artista della modulazione anziché dell’esplosione, che rischia di farsi sempre più prigioniero delle sue ossessioni e della sua maniera: lunghe pennellate espressionistiche, che producono sempre lo stesso quadro, dove la variazione è data dal colore o dalla luce, scoperti tardi. Ha voglia la curatrice della mostra, Catherine Lampert, a insistere sull’originalità in opposizione alla continuità, ma si diverte lei per prima a mostrare insieme, nell’ultima sala, le opere che nel corso di quaranta anni hanno affrontato lo stesso soggetto: un gioco col punto di vista e la tecnica della rappresentazione, che rende tanto più interessante la serie quanto più la sequenza è esibita anziché rimossa. Le due tele del 2010 su Hampstead Road, una grande e una piccola, esaltano la differenza di colore, luce, spessore e movimento, ma valgono di più in coppia che prese da sole: perché è la resistenza del momento al cambiamento che Auerbach deposita sulla tela, in un corpo a corpo con la materia e col tempo del quale si vede la tensione anziché la soluzione («every thing that grows / holds in perfection but a little moment»: ogni cosa che cresce /si mantiene perfetta per un solo istante, Shakespeare). La bellezza sta tutta nella forza del colore, nell’energia della pennellata, nella pienezza della luce e nel dinamismo delle linee: è l’intensità del gesto artistico che Auerbach vuole comunicare. Non troppo diverso da Pollock, eppure il suo opposto, se Pollock è colui che cola colore dall’alto, mentre Auerbach sembra concentrarlo e lavorarlo dal fondo.
Ridurlo alla purezza assoluta del fare, però, rischia di far prevalere la contemplazione sul significato, che invece non viene mai meno. È una riflessione sul tempo, sulla caducità e sul cambiamento, la sua pittura; ma soprattutto sullo sguardo, che nel percorso si arricchisce anziché perdersi: se negli anni sessanta trionfava lo spessore e negli anni novanta la luce, è forse perché – al di là dell’unicità di ciascuna opera – lo sguardo è cambiato e il cambiamento va visto. Le stagioni si alternano sempre e gli umani sono tutti diversi: biologicamente metamorfici i suoi spazi, umanamente varie le sue teste. Le linee di fuga sembrano portare i primi fuori dal quadro, mentre le seconde si sformano e ondeggiano nei modi più diversi: eppure l’insieme resiste, mescolando fluidità del movimento e ricerca dell’essere in una sola raffigurazione che contempera instabilità e unità al tempo stesso. Spedito dai genitori in Inghilterra a sette anni, bambino ebreo a rischio di persecuzione da parte dei nazisti, non li avrebbe più rivisti, i genitori, perché morirono entrambi in un campo di concentramento: costretto a non avere memoria e stare immerso nel presente, è sulla totalità del presente, e sulla sua necessità di un precedente, che Auerbach ha costruito tutta la sua ricerca pittorica. Senza Dio a dargli una direzione, ma con tanto divino intorno a lui. «Se ogni giorno passi davanti a qualcosa che ha un po’ di personalità, comincia a intrigarti», dice: alla ricerca dell’immagine giusta, come se dipingere fosse sempre una progressiva messa a fuoco attraverso i materiali compositivi, la luce (frontale e piena) e il colore (forte e caldo). All’artista tocca dare forma al caos primordiale e al magma indistinto, col quale intraprende una sfida, una lotta, che l’opera mostra sempre nella sua dimensione dinamica, quando la vittoria è ormai prevedibile ma non ancora compiuta fino in fondo. Dipingendo ogni mattina la strada che ha appena fatto per andare al suo studio e ora guarda dalla finestra, Auerbach mette insieme movimento e traguardo, percorso e risultato, passato e presente; ma l’opera non lo soddisfa, sottrae o aggiunge colore, elide e accumula a piacimento, perché la realtà è inafferrabile e non si può che circoscriverla. È un pezzettino di realtà, infine, quello che riesce a preservare; ma ne vale la pena, perché quella realtà così preservata è più profonda, più intensa, più interiore di quella che consideriamo realtà solo perché empiricamente è a portata di mano. Il realismo passa per il lavoro, che lo fa sfuggire dalla pretesa di realtà, inutile presunzione oggettivizzante, e lo consegna allo sguardo sulla realtà, l’unica conoscenza possibile in soggettiva. Terra e fango, fino in fondo, fino all’oltre: fino all’astrazione. Più interessato alla rappresentazione in pittura dello stare al mondo che alla traduzione visiva di sentimenti e stati d’animo.
Play it again, diceva Woody Allen: riprovaci, Auerbach, perché tutto può cambiare e nulla si ferma. Rifare la stessa opera non è solo guardare diversamente lo stesso spicchio di mondo, ma ricominciare ogni volta daccapo, sapendo che ieri è già alle spalle ma domani ancora a venire. Magmatico, corporeo, sfuggente nelle linee e deciso nel tratto, Auerbach è artista sporco, come ne restano pochi, che crede nel valore sensoriale dell’esperienza e la ributta in faccia allo spettatore; ma è anche artista che dà senso al lavoro solo attraverso la composizione, che converte il caos in misura e l’accumulo in tracciato. L’architettura inquadra lo spazio, come una mattina presto a Mornington Crescent (1991), e le facce sono plastilina fluida, che si muove ma non si sgretola, come la testa di William Feaver (2003): tutto sembra precario, instabile, pronto a crollare , come – disse di lui Lucian Freud nel 1995 – un cameriere che finga di scivolare con una pila di piatti in mano, ma la struttura resiste. Tocca allo spettatore tenerla insieme: dando forma e mettendo in rilievo, a partire dal suo, di sguardo.