Il sole batte sui tetti di quelle scatole battezzate dalla burocrazie come Sae e comunemente note come casette provvisorie. Cornillo Vecchio è una delle sessantanove frazioni di Amatrice: la strada per arrivarci è stretta, il panorama per il resto è azzerato. Due mucche e una decina di casette gialline. E basta. Il bar più vicino è a un chilometro.

Fumando una sigaretta, un uomo sulla sessantina racconta una storia che vorrebbe essere uno scoop e che invece è una lite condominiale. Piantine di un edificio crollato in seguito al terremoto delle 3 e 36 del 24 agosto del 2016, che non riportano millesimi, vicini poco propensi al dialogo, un amministratore forse un po’ distratto. La questione è nelle mani del giudice di pace di Rieti.

La storia, dunque, in sé non vale niente, ma forse chiarisce definitivamente un punto: un luogo che per secoli ha fatto dell’unione tra i suoi abitanti la sua forza più grande, adesso è un campo di battaglia pieno di trincee con soldati soli dentro. Sembrano scene da un racconto di Carver: stanchezza, contorni sbiaditi, crisi di nervi, ragioni personali, questioni private. E così, se non d’amore, almeno si capisce di cosa parliamo quando parliamo di strategia dell’abbandono.

LE COMUNITÀ terremotate stanno scomparendo, e se è vero che nessuno si salva da solo, qui tutti credono che senza gli altri si starebbe meglio.

Non è solo questione di ricostruzione, anche se è vero che i lavori procedono con una lentezza insopportabile.

In paese, ad Amatrice, il corso centrale che taglia in due il centro storico è accompagnato da un muro che rende complicata l’osservazione delle macerie. Si vedono comunque, completamente sventrati, i pochi palazzi che non sono crollati del tutto. L’aria è piena di polvere. Le macchine passano e nessuno si ferma a guardare. È l’abitudine.

Oltre, dove le case sono tutto sommato in piedi seppur piene di crepe o impacchettate dai cantieri, i segnali di ripresa sono completamente affidati all’economia turistica. Un centro commerciale – l’ennesimo nato nel doposisma – brulica di persone. I posti nell’area ristoro, dove i ristoranti del paese hanno trovato una nuova sistemazione, sono tutti pieni. Manca il resto: dove sono finiti gli abitanti di Amatrice?

TORNANDO VERSO EST, la Salaria è tappezzata di cantieri aperti, ma di operai al lavoro non se ne vedono molti. Ai lati, altre idee di rinascita non ancora sviluppate: capannoni che crescono, la fabbrica di Della Valle, qualche azienda che ha incredibilmente resistito, striscioni di protesta su un cavalcavia all’altezza di Accumoli: «Li mortacci vostra», si legge su uno.

BISOGNA SALIRE verso Spelonga – una frazione di Arquata del Tronto in cui ogni tre anni si celebra con una grande festa popolare l’eroismo locale esibito durante la battaglia di Lepanto – per incontrare qualcuno che ancora nel cratere del terremoto ci vive.

È il giorno di uno dei concerti di Risorgimarche, la rassegna ideata dalla Regione Marche, curata da Neri Marcorè, con decine di migliaia di presenze, diverse proteste da parte degli ambientalisti e qualche perplessità dei terremotati. Nel maceratese, qualche mese fa, furono appesi degli striscioni irridenti sul tema con scritto «Insorgi Marche». Sarebbe ora, forse.

I concerti comunque sono belli. «Certo che sono belli», risponde una signora, abitante del luogo. «Il tuo cantante preferito in un luogo bellissimo. Come può uscire un brutto concerto?». C’è un però in fondo a questa frase.
«Però io tutta questa gente non l’ho mai vista quando si è trattato di protestare per come stiamo messi».

Scendendo si arriva ad Arquata del Tronto. La rocca sovrasta una spiaggia grigia di macerie quasi del tutto ordinate. Non c’è più niente, le giornate scorrono lente nei villaggi di casette sotto al vecchio paese. C’è poca gente in giro, qualche funzionario frigge nei container che ospitano gli uffici del Comune. Passano poche automobili, quasi nessuno sale verso le frazioni di Piedilama e di Pretare, gli ultimi avamposti prima del Monte Vettore, la grande pietra che sembra sempre sul punto di crollare ma che, in fondo, sta lì da millenni a guardare la vita che va e che viene.

A ovest di Arquata troviamo Pescara del Tronto. Sembra una discarica, parzialmente coperta da dei container piuttosto alti piazzati sulla strada. Si vedono i tetti delle case a schiacciare le macerie. Secondo una folle legge di qualche decennio fa, bisognava farli di cemento armato e così, quando il terremoto ha colpito duro, i muri delle case si sono sgretolati e i tetti troppo pesanti si sono schiantati al suolo. Morirono cinquantadue persone. Pescara del Tronto non rinascerà mai più: il costone di roccia su cui sorgeva questa frazione è stato fracassato dal sisma e adesso si studiano soluzioni alternative, nel senso che la ricostruzione avverrà qualche decina di metri più in basso, sulla Salaria.

SI PARLA DI FUTURO e il fatto è che da queste parti il presente dura da tre anni e non si muove, le persone sono stanche e ogni idea di società appare difficile da concepire. Si dice che le aree interne fossero in crisi già da prima del terremoto, ed è vero: crisi demografica, crisi economica, crisi sociale. Tutte cose che si dicevano nel disinteresse generale. Le scosse hanno solo accelerato questo processo, che avanza implacabile mentre intorno tutto è immobile. Il tempo non è mai passato.

Davanti al bancone di un bar lungo la Salaria, ad Acquasanta Terme, un signore beve il suo aperitivo. Al polso sinistro indossa due orologi. «Uno è nuovo», racconta. «L’altro è fermo da tre anni». Le lancette segnano le 3 e 35. L’ultimo minuto prima della botta grossa.