Barbara Mancini la incontro a Montegranaro a «Philosofarte», lungo corso Matteotti, il nostro posto dell’anima, dove nel tempo si è raccolta una comunità di artisti, musicisti, scrittori che tengono in vita l’umanità di un luogo votato alla monoproduzione calzaturiera. «Mille fabbriche, nessuna libreria» si potrebbe dire parafrasando ciò che Giorgio Bocca scrisse a proposito della Vigevano di Lucio Mastronardi negli anni ’60, in un altro microcosmo della piccola impresa italiana, una laboriosa attività artigianale di «scarpari» in un deserto consumistico, oggi tarmato dalla crisi del lavoro.

Il senso visionario
Ma già in un luogo culturalmente molto difficile, aveva iniziato la sua attività underground alla fine degli anni ’70 suo padre Gottardo, di origini venete, aprendo la Galleria 3 C (che voleva significare tre compagni, quanti i fondatori, nel senso di tre militanti di sinistra) di cui nel vicino Palazzo Conventati, un edificio del XVII secolo attiguo alla sede dell’Associazione, c’è ancora un prezioso giacimento, la «Pinacoteca Fondo Gottardo Mancini», lascito delle tante mostre organizzate da questo «don Chisciotte» nel corso degli anni con artisti come Guttuso, Levi, Hsiao Chin, Brindisi, Monachesi, Treccani, Attardi, un uomo che pensava, cogliendo nel segno, che questo posto operoso, industrializzato, avesse però «nello spirito la saggezza e la bontà dei contadini»; e nelle strade del centro storico di Montegranaro si sono viste anche trasgressive istallazioni di Giuliano Giganti, artista concettuale con una visione dell’arte ecologica.

«Mio padre è stato un folle», nel senso di visionario, «ho visto Schifano che ero piccola» racconta Barbara, una donna dalla tempra forte e tenera, una folta capigliatura nera e un viso con l’espressione intensa da attrice drammatica, mentre beviamo un bicchiere di rosso piceno, «mio padre lo incontrava a Roma nel suo studio, mi ricordo che un giorno gli fece vedere la Rolls Royce che aveva acquistato, di colore rosa, che però non poteva guidare perché non possedeva la patente», dice ancora divertita.

Arriva Dondero
A suo padre gli chiedevano come mai avesse pensato di aprire una galleria d’arte proprio qui, come fosse una cosa bislacca, «come mai a Montegranaro»? E lui rispondeva, rilanciando: «E dove se non qui? È qui che c’è bisogno». Dopo la sua morte, la figlia ne ha preso il testimone, però portando dentro la storia di queste stanze e nella piccola città marchigiana le sue passioni, la poesia e la filosofia, lei che viene dall’esperienza dal Counseling filosofico di Torino, dalla terapia dell’anima. Ha riaperto nel 2000 grazie a Carlo Cattaneo, pittore della figurazione fantastica. «È lui mi ha fatto conoscere tutti: Porzano, Franco Mulas, Alberto Sughi, Vespignani, soprattutto Ennio Calabria». Di qui sono passati Guido Ceronetti, Alda Merini, che ha regalato a Barbara tre inediti e una quantità di poesie dette a voce, «scrivi, scrivi, e mi dettava i suoi versi», Ascanio Celestini, l’unico con la tessera di socio straordinario di Philosofarte e, naturalmente, il fotografo Mario Dondero, che la chiamava La casa dell’umanità.

«Arrivava a tutte le ore – ricorda Barbara Mancini – I saluti di Mario a mezzanotte erano famosi, perché non finivano più e poi cominciava una nuova nottata, si beveva e si cantava. Ho fatto con lui dei viaggi memorabili. Una volta andammo da Pinuccio Sciola a San Sperate, in Sardegna, ma prima di andare in Sardegna, passammo in Svizzera da un certo Jean, suo caro amico, e a Genova, un viaggio infinito».

Adesso l’arte ha incrociato anche il disagio e qui dimorano stabilmente nei pomeriggi come questo Marzio, Luca, Sergio, Anna, ragazzi psichiatrici che da essere un peso sono diventati una risorsa per la comunità, perché oltre a esprimersi artisticamente organizzano corsi gratuiti per studenti delle scuole medie, e si è formata la Pop (Piccola orchestra Philosofarte). «Loro sono arrivati casualmente – spiega Barbara – ai corsi partecipano immigrati di seconda generazione, ma anche ragazzi difficili e iperattivi».

Chine e ritratti
Quando saliamo al Palazzo Conventati dove è allestita la mostra antologica di Giacomo Porzano, sembra di entrare in un vero e proprio museo. Barbara l’ha curata insieme a Tiziana Monti, che definisce «una donna straordinaria che ha sostenuto molti artisti romani», e parte dalle prime chine degli anni ’40, attraversando mezzo secolo di ricca esperienza artistica, «dal grande temperamento grafico», come rileva Giorgio Di Genova nel catalogo, fino all’ultimo disegno al quale lavorò fino a poche ore prima della morte, un inquietante volto di Franz Kafka rimasto incompiuto.

In queste sale si possono incontrare anche i ritratti realizzati dall’artista negli anni ’70, quelli di Bogart, Mina, Hitchcock, tra gli altri, e un grande quadro con il volto di Pier Paolo Pasolini che prende un’intera parete. «L’aveva incontrato pochi giorni prima di morire, si erano accordati per un ritratto da fare nel suo studio, diceva che era come l’aveva visto, un uomo angosciato, stanco, aveva gli occhi del cane bastonato».