«Rendere universali il potere e la proprietà»: questo il progetto, presente nel programma della Comune di Parigi, che riassume le speranze di quei rivoluzionari, partigiani di una repubblica «democratica e sociale».
Per i comunardi, come per i loro impauriti avversari, la repubblica «sociale» intendeva innanzitutto rifarsi a quella che, tra il 1792 e il 1794, coincise con il momento di maggiore intensità della Rivoluzione francese. Gli animatori della Comune facevano propria la politica di Robespierre. Ai loro occhi, il «terrore» era una «dittatura», paragonabile a quella della Repubblica romana dell’antichità, quando le circostanze esigevano tali misure.

PIÙ RILEVANTE ANCORA era per loro la memoria delle promesse mai realizzate inscritte nella costituzione di quel regime – che la guerra non consentì di mettere in opera: suffragio universale maschile, rinnovo annuale dei rappresentanti del popolo, approvazione delle leggi attraverso referendum. Quella repubblica tendeva ad una forma di democrazia diretta.
Fedeli a questa memoria, i comunardi erano convinti che la sovranità non si deleghi, né si rappresenti, bensì vada esercitata. Volevano essere padroni di se stessi e governarsi da soli. Il 30 marzo (1871), la Comune precisa le ragioni alla base dell’insurrezione: «per conquistare la sua indipendenza e la sua autonomia, (Parigi) vuole l’autogoverno, vale a dire la Repubblica».
In breve, secondo la bella formula dello storico Jacques Rougerie, uno dei maggiori conoscitori di questa rivoluzione, la Comune è «una messa in discussione libertaria della democrazia». Vale a dire che la Comune non significa né anarchia né democrazia diretta, ma un’esperienza ibrida tra pratica libertaria e organizzazione semi-statale.
Ma, in concreto, come si poteva «rendere universale il potere»?

La Comune è la sola insurrezione europea del XIX secolo a essere stata legittimata da un’elezione locale. Subito dopo il 18 marzo, il Comitato centrale della Guardia nazionale (lo stato maggiore), i deputati e i sindaci degli arrondissement della capitale, chiedono, per risolvere la crisi, lo svolgimento di elezioni municipali, una vecchia rivendicazione dei parigini che per tutto il secolo erano stati privati di un sindaco. Il 26 marzo, la partecipazione al voto sarà onorevole, anche tenendo conto del fatto che numerosi borghesi dell’ovest della città se ne erano già andati. I rivoluzionari conquistano 73 seggi, i moderati solo 19.
Il 28 marzo, la «Comune di Parigi» è proclamata all’Hôtel de ville. La Guardia nazionale sfila davanti agli eletti. Parigi è in festa. Perfino i conservatori, inquieti, riconoscono la forza che emana da tale cerimonia.
Eletta dagli abitanti della capitale, per la prima volta nella storia delle rivoluzioni parigine, la Comune non pretende di governare la Francia intera. Gli ammiratori di Robespierre rompono perciò con il centralismo giacobino. I parigini propongono alle altre città del paese di riunirsi in una «federazione di comuni». Ma la provincia resta sorda a questo appello. Le Comuni di Lione, Marsiglia e Saint-Etienne non reggono che qualche giorno. Parigi è isolata.
La volontà di non usurpare la sovranità popolare fu anche all’origine di alcune delle azioni che in seguito, e fino ai nostri giorni, sono state rimproverate ai comunardi. Come la loro scelta di non servirsi dell’oro della Banca di Francia per finanziare lo sforzo bellico. Il segno di un colpevole moderatismo piccolo-borghese che causerà la sconfitta della Comune, come si può leggere in Marx e Lenin! Ma i comunardi non ragionavano così.
Non pensavano di aver alcun diritto sull’oro del paese. Non rappresentavano l’intera Francia, bensì la sola Parigi. E questo non era un punto negoziabile, quale che fosse l’evoluzione della guerra civile.

IL CONFLITTO FINIRÀ però malgrado tutto per imporsi, creando la principale frattura politica tra gli eletti della Comune. Dopo aver subito diversi rovesci ad opera dell’esercito di Versailles, i comunardi si interrogheranno dal 28 aprile al 1° maggio sulla possibilità di formare, come nel 1793, un «comitato di Salute pubblica», pur giudicandola una scelta anacronistica: «Ristabiliamo a nostro danno un terrore che non è del nostro tempo».
In effetti, durante la Comune di Parigi, i cittadini-combattenti non accettano di separare la lotta per la sovranità dall’esercizio concreto di quest’ultima, rifiutando gerarchie e autoritarismo. Il Comitato di Salute pubblica non arriverà mai a imporre la sua autorità sulla Guardia nazionale.
Questo acceso dibattito condurrà ad una ricomposizione politica tra gli eletti della Comune, che in precedenza si accordavano solo sull’essenziale. Il che può apparire sorprendente, visto che questa assemblea accoglieva dei rappresentanti di tutta la costellazione rivoluzionaria della metà del XIX secolo: neo-giacobini, anarchici, sostenitori di Blanqui, socialisti (ma ben poco marxisti). Molti, ma non tutti, erano affiliati alla prima Internazionale. Al di là di queste sfumature, si ritrovano però nei valori federatori della repubblica democratica e sociale.

UN ALTRO ELEMENTO si segnala, rivelando la singolarità della Comune rispetto alle altre rivoluzioni del XX secolo.
Valutando i percorsi sociali dei suoi eletti, emerge come circa la metà di loro appartenesse ai ceti popolari: degli operai qualificati, spesso legati all’industria del lusso, dei piccoli artigiani, degli appartenenti alle professioni intellettuali precarie. Spesso, le categorie professionali si mescolavano. Così, ad esempio Eugène Pottier, autore del testo dell’Internazionale, era contemporaneamente disegnatore su stoffa, chansonnier e gestore dei bagni pubblici. Anche se non si trovava tra i comunardi alcun operaio non qualificato, questa proporzione di dirigenti figli del popolo non è mai stata uguagliata da alcun altro governo popolare in Europa.