All’alba di un sabato mattina dell’agosto del 1964 il capitano del peschereccio «Ferruccio Ferri», ormeggiata la sua imbarcazione nel porto di Fano, entrava, come di consueto dopo una notte in mare, nel Caffè dei Pescatori per trangugiare la prima moretta. Bevanda d’ordinanza delle locali genti di mare, che è un miscuglio – di rum, brandy, anice, caffè –in grado di resuscitare anche i morti. Ne aveva proprio bisogno perché, come raccontava ai marinai che l’attorniavano, credeva di avere recuperato un cadavere aggrovigliatosi nelle reti da pesca, ed era invece una statua di bronzo priva di piedi e deformata da miriadi di incrostazioni. Le cui pupille e le cui ciglia, inserite a parte sul manufatto, per effetto dell’acqua sembravano muoversi e davano una sorta di vitalità alla statua, sì da scambiarla per un umanoide che subito suscitava nei suoi uomini una sensazione insieme di paura e di meraviglia. Vollero essi toccare quegli occhi che li fissavano, ma al contatto maldestro delle loro mani si dissolsero andando perduti.
Non facile fu per essi e per il comandante del peschereccio, interrogati dalle autorità dopo molti anni, stabilire il punto del rinvenimento, grosso modo fissato intorno a Numana: la pesca avveniva in piena notte, e alcuni sostenevano che le reti con il pescato e con l’insolita preda fossero state issate a bordo tra Pedaso e Numana, altri tra Numana e Fano. Una sola cosa risultava certa: siccome la loro era una pesca a strascico, questa imponeva al peschereccio la necessità di procedere su bassi fondali. Il che comportava una navigazione sottocosta ed escludeva, di conseguenza, che la statua fosse stata ritrovata in acque internazionali.
La navigazione antica è storia di naufragi e l’area del promontorio del Cònero lo può ben documentare. Gli approdi di Numana e di Ancona, al riparo l’uno dalla bora e l’altro dallo scirocco, costituivano il punto di arrivo sulla nostra costa per quanti volessero attraversare il medio Adriatico in mare aperto, abbandonando grosso modo all’altezza di Zadar/Zara la più sicura navigazione della sponda orientale protetta dai suoi cordoni insulari. Lo stesso superamento del promontorio del Cònero, molto più proiettato di oggi verso il mare aperto, costituiva un non trascurabile pericolo nautico come indica lo stesso toponimo di Ancona che in greco significa ‘svolta a gomito’. Non fa quindi meraviglia che l’imbarcazione oneraria che trasportava la nostra statua sia naufragata all’incirca nelle acque di Numana. Dove già si era inabissata la nave antica che trasportava i Kouroi di Osimo, e donde forse era stata sballottata fino alla costa croata quella che trasportava la statua dell’Apoxyómenos di Lussino. Costa al di là del mare, dirimpettaia, in direzione della quale, nel caso di burrasca, l’esperienza nautica poteva consigliare di indirizzarsi per non naufragare sulle spiagge, prive di approdi, degli importuosa Italiae litora.
Ma qual era la meta di questi naufraghi manufatti, relativi a superbi esemplari di statuaria greca? Ovviamente era Roma, l’urbe che, dopo la distruzione di Corinto, aveva iniziato a predare molti capolavori dell’arte ellenica. Per merci di lusso, che dal levante greco lì si indirizzassero, le due direttrici più transitate erano la via Appia da Brindisi e la via Flaminia da Fano. Delle due superstrade consolari di gran lunga più vantaggiosa era la Flaminia, che consentiva un molto minore transito su ruote. La sua costruzione risale a quattro anni prima della seconda guerra punica, quando sul medio Adriatico già si affacciavano le colonie latine di Senigallia e Rimini. Nel sito di Fano un santuario di Afrodite/Tyche/Fortuna accoglieva i naviganti, consentendo loro con tutta probabilità di fruire dei servizi offerti dalla prostituzione sacra. La sua antichità è rivelata dalla propria connotazione oracolare, della quale rimane traccia nelle sortes iscritte sui ciottoli con responsi per viandanti del mare qui giunti anche dalle periferie mediterranee. Di fatto, un approdo da riconnettere in primis alla frequentazione dei Greci. Il cui nome in epoca preromana è probabilmente quello di hieròn tês týches, poi latinizzato in fanum Fortunae, quando, a seguito della Flaminia, il sito diviene polo terminale di una via ‘direttissima’ di collegamento tra Tirreno e Adriatico. La quale è direttrice di traffici provenienti dal levante, e soprattutto di traffici di merci di lusso, come le statue rapinate nelle città greche da Lucio Mummio o da Silla, per le quali – dirette a Roma – appariva rischioso sia un viaggio per mare che dovesse circumnavigare la penisola, sia un itinerario terrestre che le costringesse a un viaggio troppo lungo e quindi pericoloso. Se la nostra statua, e con essa le altre che abbiamo ricordato, erano dirette a Roma, ben si spiega come le navi che le trasportavano siano naufragate facendo rotta su Fano donde avrebbero iniziato sulla via Flaminia il loro trasferimento per terra.
Stupisce che l’archeologo che ha offerto il contributo maggiore allo studio della statua l’abbia poi fatta viaggiare per mare ben due volte: all’andata e, in certo senso, al ritorno in levante. Ipotizzando, cioè, che la nave che la trasportava sia naufragata nell’età di Costantino che ne avrebbe decretato il trasferimento da Roma alla nuova Roma sul Bosforo.
Chiariti i dati della navigazione e del naufragio, possiamo approdare al soggetto della statua. Si tratta di un bronzo, di un metro e mezzo di altezza a prescindere dalle parti mancanti, che raffigura un giovanissimo atleta probabilmente ritratto nell’atto di cingersi il capo di una corona. Di fatto, un efebo nel pieno della pubertà che procede trionfante dopo un agone sportivo, e la cui muscolatura delle gambe affusolate può suggerire una sua vittoria nella corsa. La conformazione roteante del corpo insieme alla posizione del collo fanno senz’altro pensare a un esemplare lisippeo o di scuola lisippea. Così come la chioma a caschetto, con i capelli raggruppati in ciocche fluenti e ondulate. Lo sguardo denunzia un’espressione di composta fierezza; non appunta gli occhi nel vuoto, ma davanti a sé, verso un obbiettivo definito e concreto che è alla sua altezza.
La critica è discorde nell’attribuire il manufatto direttamente a Lisippo, l’artista curatore dell’immagine statuaria di Alessandro, ovvero a scuola lisippea. Nel primo caso la sua datazione è da porre nell’età del grande condottiero che stravolge l’intero quadro geo-politico del mondo antico; nel secondo caso può scendere di almeno una o due generazioni. È stato pure supposto che il nostro giovane atleta sia l’immagine allegorica di Agón, il dio che, al seguito di altre maggiori divinità, presiede alle gare panelleniche. La cosa è possibile, ma, nel caso che lo scultore fosse un artista greco della prima età ellenistica, lo vedremmo meglio come un Agón che, in ossequio alla più generali contraddizioni del tempo, assommi in sé due connotazioni giustapposte: quella dell’Éroos aníketos, dell’eroe invincibile, per esaltante debito alla memoria di Alessandro, e quella dell’esponente dell’efebia, cioè di un’istituzione paramilitare che le poleis potenziano, a lato della milizia civica, per sterile reazione alla perdita della libertà.
Il lettore avrà comunque compreso che siamo all’interno di un ‘giallo’: discorde l’informazione sul punto nautico del rinvenimento; discorde la rotta del naufragio; discorde l’attribuzione di paternità da parte della critica; discorde lo stesso anno del ritrovamento (il già ricordato 1964 a stare agli accertamenti ufficiali? o il 1961 a stare all’unica monografia sulla statua di cui disponiamo?). ‘Giallo’ però che non è nulla rispetto alle vicissitudini del manufatto successive al rinvenimento, mai denunziato alle autorità: quindi relative ai rigattieri locali, ai ricettatori nazionali, ai monsignori che con religiosa compiacenza l’hanno occultato nella propria canonica, ai mercanti d’arte internazionali che, da Monaco di Baviera, ne hanno favorito un clandestino e ben remunerato espatrio negli USA, dove – dopo un’accurata toilette – è possibile oggi ammirarlo al Getty Museum di Los Angeles. «Giallo» anche quest’ultimo che non è ancora nulla riguardo alle contese internazionali per riottenere la statua da parte della magistratura italiana che, nonostante più sentenze favorevoli alla riacquisizione, si trova sempre dinnanzi all’ostruzionismo di rinnovati cavilli sollevati dai legali del Getty Museum. Chi scrive non è un legale e non è in grado di muoversi nel labirinto di troppe inevase sentenze giudiziarie; si limita quindi a invitare il lettore, per saperne di più, a una Tavola Rotonda sul nostro atleta ‘venuto dal mare’ promossa a Roma, in ottobre, dall’archeologa Rachele Dubbini presso il Pio Sodalizio dei Piceni.