Spinta da corrette preoccupazioni ambientali, qualche tempo fa la Ue ha avanzato la proposta di bloccare la produzione di auto a propulsione tradizionale a partire dal 2035. Intanto, il mercato europeo è in rilevanti difficolta, con vendite in calo in relazione a problemi logistici, al covid, alla carenza di chip nonché di adeguati incentivi, all’aumento dei prezzi di molte materie prime, alle incertezze dell’economia. In Italia si dovrebbero toccare, nel 2021, le 1.460.000 unità vendute, con un calo di quasi il 24% rispetto al 2019, mentre per il 2022 le prospettive sono ancora poco incoraggianti. Anche gli altri mercati europei sono depressi.

Su di un altro piano, è noto che da noi già da tempo alcune società di componentistica, in un settore già in difficoltà, hanno deciso di chiudere, magari delocalizzando, mentre diverse altre potrebbero seguire tale strada. Il settore è preso in una doppia tenaglia, da una parte, nel campo dei componenti per le vetture tradizionali e in un mercato in calo, da un problema di costi più alti che nei paesi dell’Est Europa, dall’altra, dall’avanzata dell’elettrico per il quale è richiesta una forte riconversione, con la previsione poi di volumi di produzione comunque più ridotti, in relazione al minore numero di componenti richiesti.

Così, già nel luglio del 2021 al primo incontro di un gruppo di lavoro, presso il ministero dello sviluppo, tra i produttori di componentistica e i sindacati è emersa la preoccupazione per la possibile perdita di 60.000 posti di lavoro.
Nei primi giorni di dicembre Carlos Tavares, AD di Stellantis, ha poi lanciato un appello drammatico contro la decisione di Bruxelles, sottolineando le gravi conseguenze di un approccio “impositivo dall’alto” nel passaggio ai veicoli a batteria, parlando di costi insostenibili, di un settore al limite e del fatto che qualcuno fallirà.

Dopo che comunque il Governo, dopo alcune esitazioni, ha deciso di aderire allo stop ai motori termici di Bruxelles, anche la Confindustria Nord ha espresso sconcerto e preoccupazione, dichiarando che l’orizzonte temporale al 2035 è inattuabile, con perdite di posti di lavoro fino a 70.000 addetti.
Intanto il 6 dicembre anche l’associazione dei componentisti europei ha suonato l’allarme, affermando che se si mantenesse il limite al 2035 circa 500.000 posti di lavoro salterebbero entro cinque anni, mentre si creerebbero soltanto 226.000 nuovi posti. Ma, d’altro canto, una previsione valuta che nel 2030 circoleranno ancora nel mondo 1,5 miliardi di auto tradizionali, circa 150 milioni più di oggi, con i relativi livelli di inquinamento.

Diversi paesi hanno poi deciso di non permettere più la vendita di vetture tradizionali entro al massimo il 2035; tra di essi, la Norvegia (siamo già oggi quasi al 100% di vendita di auto elettriche), la Svezia, il Giappone, la Gran Bretagna. In Germania, poi, tra ibride ed elettriche, siamo ormai al 50% del mercato. Diverse case hanno anche esse deciso di passare all’elettrico anche prima del 2035; tra di esse, la Volvo, la Daimler, la Ford. Ricordiamo ancora come società come Tesla e i produttori cinesi stiano andando avanti con decisione nel nuovo settore, conquistando posizioni molto importanti. Intanto i grandi gruppi della componentistica e della produzione per conto terzi, dalla tedesca Continental, alla taiwanese Foxconn, ai cinesi, stanno portando avanti progetti colossali per rafler la mise, per vincere tutta la posta, e non aspetteranno certo le nostre decisioni.

Alla fine, a rimandare ancora si rischia molto di più e le perdite di posti di lavoro risulterebbero molto più elevate. Una strategia suicida. A questo punto il principale fattore che può far quadrare in qualche modo le cose appare un intervento deciso dell’operatore pubblico. Ricordiamo intanto che anche in Francia si moltiplicano gli allarmi sulla situazione. Nel 2021 si sono già persi circa 3.000 posti di lavoro a causa della chiusura di impianti, ma la minaccia è che si tratti soltanto di un’avanguardia di quello che potrebbe succedere.

Intanto il Governo ha messo a punto un piano di intervento organico, con la possibilità di prestiti industriali a 10 anni presso la banca pubblica di investimento, con la creazione di un fondo di sostegno alla diversificazione dei componentisti verso nuovi prodotti e processi, infine con uno stanziamento per i territori più colpiti dalla crisi. Intanto in Germania, mentre la politica era distratta dai problemi elettorali, ci ha pensato il sindacato ad affrontare la questione e, in collaborazione con le istituzioni politiche, sociali e religiose, ha avviato una grande società finanziaria che dovrà accompagnare la trasformazione del settore.

In Italia abbiamo notizia di uno stanziamento di 150 milioni di euro dedicato all’automotive nel budget dello Stato per il 2022, ma poco di più; si può quasi solo sperare che, essendo il nostro governo in genere sensibile ai voleri della Confindustria, esso si faccia prima o poi avanti con piani complessivamente più adeguati. Ma a questo punto è chiaro che quel che manca è il ruolo diretto dello Stato e il coinvolgimento “programmatico” dei lavoratori, a partire da quelli già in lotta.