Una famiglia di estrazione ebraica che a poco a poco, nel corso del Novecento, abbandona la fede dei progenitori, si allontana dalla Comunità israelitica e dà inizio alla pratica dei matrimoni misti: tutto ciò senza soverchie nostalgie ma anche senza rifiutare in alcun modo la propria ascendenza. È la vicenda raccontata da Sandro Gerbi in Ebrei riluttanti (Hoepli, pp. 158, euro 16,90), nel quale descrive in maniera incisiva e appassionante il graduale processo di laicizzazione vissuto dai suoi congiunti: i quali, pur curandosi molto poco della propria origine – «agnostici cocciuti» li definisce l’autore – furono comunque vittime delle leggi razziste, che ne influenzarono profondamente le scelte più rilevanti, mantennero l’uso di uno specifico e gustosissimo «lessico familiare». D’altro canto, essendo assimilati e cosmopoliti, continuarono a frequentare vari esponenti della cultura ebraica europea, della finanza italiana e internazionale, del giornalismo, della filosofia e della letteratura.

IL RACCONTO INIZIA nel 1938, anno nel quale il padre dell’autore, lo storico delle idee ed economista Antonello Gerbi, fu costretto a lasciare l’Italia e a trasferirsi in Perù a causa della legislazione antisemita. Una sorte analoga sarebbe toccata ai suoi due fratelli, Giuliano e Claudio: il primo cronista sportivo, il secondo medico che sarebbero riusciti a trovare rifugio negli Stati Uniti. Lo stesso Paese verso il quale per ultimo, intorno alla metà del 1939, dopo un faticoso peregrinare tra numerosi uffici consolari, sarebbe partito anche il nonno Edmo. Osserva dunque al riguardo l’autore: «Così, in brevissimo tempo, quattro ebrei più o meno secolarizzati e ben integrati nella società italiana si trasformarono loro malgrado in “ebrei erranti”».
Antonello Gerbi tornò in patria insieme alla sua famiglia solo nel 1948. Si stabilì di nuovo a Milano, città nella quale – ormai alla fine degli anni ‘60 – il figlio Sandro porterà a termine gli studi universitari e muoverà i primi passi nel mondo del lavoro. Nel frattempo, la quotidianità avrebbe ripreso a trascorrere all’insegna del consueto laicismo e della sempre più completa assimilazione. In qualche godibilissima pagina l’autore indica, ciononostante, alcune parole ed espressioni ebraiche ed yiddish che, attraverso i genitori, sarebbero state in seguito apprese da lui e da suo fratello. Dallo schlemihl (il pasticcione) al nebbish (il classico perdente), passando per il meshugge (un essere stravagante e lunatico) fino allo schnorrer (lo scroccone, che però può essere talvolta un individuo coltissimo e dotato di una notevole sfacciataggine – la chuzpah) il libro ne enumera le più utilizzate consentendo al lettore una breve, gradevole immersione in quella che, tra Otto e Novecento, è stata la grande letteratura degli shtetl, le comunità di villaggio dell’Europa orientale.

IL LIBRO VA INOLTRE apprezzato per gli ultimi capitoli, nei quali Sandro Gerbi si dimostra capace di ritrarre alcuni celebri personaggi che ne avrebbero profondamente influenzato il carattere e le predilezioni. Dal momento che egli ha avuto la fortuna di frequentare a lungo Renato Cantoni, autorevole consulente finanziario nonché decano dei commentatori della borsa milanese, di incontrare il filosofo ungherese György Lukács, che lo impressiona per la «sbalorditiva vastità di orizzonti», di ricevere i consigli di Ugo Stille e di utilizzarne la vasta rete di relazioni, di conoscere e stimare Erich Linder, il leggendario agente di tanti celebri scrittori.
In conclusione, sembra opportuno aggiungere come sotto il profilo stilistico questo libro di Sandro Gerbi si caratterizzi per l’incisività della scrittura, la ricchezza del lessico, il plurilinguismo. Tutti elementi che – insieme alle vicende riferite – contribuiscono a elevare la qualità della sua prosa e a rendere il testo davvero gradevole. Si auspica infine che, attraverso Ebrei riluttanti, qualche lettore arrivi a scoprire le magistrali e coinvolgenti opere di suo padre, Antonello: uno studioso che tanto ha dato alla cultura storica ed economica del nostro Paese.