Sono i possibili diversi significati e le altrettanto mutevoli dimensioni del viaggio che Lev Golinkin propone di condividere ai lettori del suo Uno zaino, un orso e otto casse di vodka Baldini & Castoldi (pp. 336, euro 18.00), emozionante memoir che si trasforma pagina dopo pagina in una biografia collettiva in grado di far rivivere un’intera epoca storica e i suoi protagonisti.

Nello scorrere della narrazione, il piano temporale si interseca con quello dello spazio e con una ricerca ancor più difficile da sondare e definire che l’autore compie all’interno di se stesso.
Prima di tutto c’è il viaggio vero e proprio, o meglio le peripezie talvolta ai limiti della tragedia, di una famiglia di ebrei di Kharkov, città dell’Ucraina orientale che all’indomani della caduta del Muro di Berlino, riesce a lasciare quella che fu l’Unione sovietica alla volta prima dell’Austria e quindi degli Stati Uniti.

Quindi c’è l’immersione in una cultura, quella dell’ebraismo orientale, le cui flebili tracce sopravvissute alla Soluzione finale nazista furono via via annichilite dal pauperismo culturale e dall’antisemitismo strisciante dei regimi del Socialismo reale: il piccolo Lev ne fa ogni giorno le spese nel cortile della scuola quando viene aggredito dai compagni, la sorella ne sconta le conseguenze non potendo realizzare il suo sogno di diventare ingegnere, mentre il padre rischia la galera per acquistare clandestinamente una matzah, del pane azzimo per celebrare la festa di Pesach.

Infine ci sono i conti da fare con la propria identità e con la memoria di eventi incommensurabili per chi all’epoca dei fatti era solo un bambino, Golinkin sbarcò a New York nel 1990 che aveva solo 9 anni. Un percorso che l’autore ha compiuto attraverso questo libro straordinario, costatogli non a caso oltre otto anni di lavoro tra le ricerche storiche, le interviste ai sopravvissuti dell’epoca e la stesura vera e propria del testo.

L’approdo del viaggio, come spiega lo stesso Golinkin, «mi ha portato a comprendere il mio passato e chi sono oggi, anche se questa non è soltanto la mia storia».

Attraverso le pagine del suo libro è un intero mondo perduto che sembra riprendere vita. È un romanzo collettivo più che un memoir?
Scrivere qualcosa, anche se solo una piccola frase su un tovagliolo, e anche se sei già consapevole che poi finirai per buttarlo via, aiuta sempre a rendere in qualche modo reale ciò di cui parli. Per questo ho esitato a lungo prima di scrivere questo libro. Per tanto tempo avevo infatti cercato di non pensare al mio passato, a chi ero e da dove venivo, forse perché temevo proprio di ridestare quel mondo, non sapendo bene dove mi avrebbero portato i ricordi e il ritrovarmi improvvisamente in mezzo ad essi.
Invece poi, fin da quando il testo era poco più che un mucchietto di fogli scarabocchiati, ho capito che mi faceva star bene. E questo era accaduto già prima, nella fase delle ricerche preparatorie, incontrando molte persone per farmi raccontare cosa succedeva in Ucraina quando ero bambino e cosa era successo prima ancora di allora, nel periodo precedente la Rivoluzione, dopo il 1917, quindi nell’epoca di Stalin. Da bambino mi ricordavo cosa era successo, il lungo viaggio che avevo compiuto con la mia famiglia, ma non sapevo più perché lo avevamo fatto. Incontrare tanta gente mi ha offerto delle risposte a tutto ciò e mi ha rimesso in contatto emotivamente con quel passato e con chi lo abita. Ma, soprattutto, è vero, mi ha fatto scoprire chi sono.

C’è un quesito che accompagna la storia e che ha a che fare con l’identità ebraica della sua famiglia, in qualche modo «subita» a causa dell’antisemitismo in Ucraina e poi «richiesta» da coloro che vi hanno consentito di espatriare proprio in quanto ebrei. Quale è oggi il suo rapporto con tutto ciò?
È buffo, ma quello stesso gruppo di ebrei statunitensi che ha aiutato la mia famiglia e migliaia di altre come le nostra a lasciare il territorio dell’Unione sovietica proprio perché ebree, il che ci aveva fatto subire piccole e grandi violenze e discriminazioni, oggi offre quello stesso aiuto e assistenza a profughi e rifugiati che non sono ebrei. Aiutano orfani che vivono in Sudamerica, migranti e profughi che sono bloccati in Messico, spesso alla mercé di autorità corrotte e trafficanti di esseri umani.
Perciò, per rispondere alla sua domanda, malgrado il rapporto della mia famiglia con l’ebraismo, specie la fede, non sia mai stato così netto, quando ci fu proposto scegliemmo di andare negli Stati Uniti invece che in Israele e i miei si sono avvicinati alla religione solo con il passare degli anni, posso dire che il momento in cui mi sento più ebreo è quando riesco ad aiutare qualcuno, quando faccio qualcosa che mi fa pensare che si possa rendere il mondo un posto migliore. Ci sono persone che pregano, io no, a me piace pregare con le mani, con quello che faccio, con le mie azioni.

Di fronte al dramma che ha vissuto da bambino come ha fatto a mettere insieme, con la serenità e talvolta l’ironia che il libro comunica, ricordi personali e famigliari, cose raccontate da altri e le emozioni che tutto ciò provocava in lei?
La serenità e direi anche lo humour di una parte della storia sono state il punto d’arrivo di un lavoro lungo. Prima ho messo per certi versi in fila le cose che mi erano rimaste impresse, spesso le più tristi e spaventose, poi ho pescato nella memoria domestica, mio padre che ricordava di aver dovuto comprare illegalmente la matzah o il fatto che i miei e i loro amici convivessero con la paura per le voci relative al ripetersi dei pogrom nel paese.
Ma molti tra coloro che ho intervistato ricordavano anche momenti allegri, di festa, una comunità che resisteva. Per razionalizzare il tutto devo dire che ho poi cercato anche di inquadrarlo nel contesto storico, per spiegare ai lettori americani qualcosa della mentalità e della storia dell’Europa dell’Est e della Guerra fredda.

Partendo dalla sua esperienza lei ha criticato le scelte dell’amministrazione Trump su immigrati e rifugiati, spiegando come sua madre non avrebbe superato «l’esame» cui si intendono sottoporre i nuovi arrivati, visto che non conosce a memoria il tradizionale giuramento di fedeltà all’America e parla ancora inglese con un forte accento russo. Con tali norme lei sarebbe ancora in Ucraina?
In Ucraina mia madre ha fatto la psichiatra per trent’anni e ha curato migliaia di persone. Ora è in America da 26 anni, ma a causa del suo scarso inglese ha trovato lavoro solo come guardia notturna in uno stabilimento dove, ironia della sorte per un’immigrata come lei, deve assicurarsi che le porte restino sempre ben chiuse. Ma mi rendo conto che a lei come a tutti noi è andata in fondo molto bene e che oggi le cose sarebbero ben diverse anche negli Stati Uniti. Inoltre, guardo a tutte queste persone ammassate nei porti italiani o nelle stazioni dell’Europa centrale e sono letteralmente terrorizzato per la situazione in cui si trovano. So bene che se paragonata alla loro esperienza, quella che ho vissuto con la mia famiglia è stata una sorta di vacanza di lusso. Noi avevamo alle spalle delle organizzazioni ebraiche internazionali, sostenute in termini di risorse e di uomini dagli ebrei americani che erano a loro volta in ottime relazioni con Washington, e ciononostante non tutto è andato sempre liscio.
Eravamo spaventati, terrorizzati, ma sapevamo comunque che una volta avuto accesso a questo «sistema» di protezione, avremmo goduto almeno di un minimo di garanzie. Tutte queste persone, invece, non hanno nulla del genere su cui fare affidamento. E l’America, invece di essere il paese leader nell’accoglienza, chiude loro le porte.