Il rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi – reso noto mercoledì 24 febbraio scorso – non è proprio un rapporto sulla competitività dell’economia nazionale.

Indiscutibilmente dà conto della difficoltà che attraversa il sistema economico nazionale ed europeo, in particolare per quel che riguarda la creazione di nuovo lavoro. Dopo tanti anni di crisi e dibattiti più o meno sinceri sulle così dette politiche dell’austerità espansiva, alcune domande dobbiamo pur farcele. Vedere se l’occupazione riprende e/o riconquista le posizioni di inizio crisi non è banale. In fondo la «Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta» di Keynes era la teoria generale del lavoro e della piena occupazione.

Nulla da eccepire. Ma qualcosa dell’indagine riproposta dall’Istat proprio non funziona, nonostante sia coerente nella sua stesura. Come facciamo a valutare la competitività dei settori produttivi se non prendiamo in esame ciò che favorisce e/o aumenta la competitività? Gli investimenti sono scomparsi dall’analisi e ancor di più le variabili che permetterebbero di comprendere cosa si cela dietro la caduta verticale degli investimenti, della produzione e in particolare della produzione a maggiore valore aggiunto.

Perché non si indaga l’intensità tecnologica delle imprese nazionali rispetto alla media europea? Qualcuno deve pur dare una spiegazione della scarsa propensione delle imprese nazionali nella spesa in ricerca e sviluppo e, questa, non può essere attribuita alla sola dimensione (piccola) delle stesse. La spesa in ricerca e sviluppo è proporzionale al che cosa si produce e alla possibilità (volontà) di anticipare la domanda di beni e servizi! Se la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane è più bassa di quella pubblica, in tutti gli altri paesi europei è l’esatto contrario, possiamo sollevare un problema di struttura che travalica la capacità di creare lavoro?

Dal rapporto escono proprio i temi che attengono la competitività delle imprese. Non sono un amante delle tassonomie e tanto meno della tassonomia Pavitt che divide la produzione in bassa, medio-bassa, medio-alta, alta tecnologia – la classificazione è a dire il vero molto più complessa -, ma per valutare un sistema produttivo e capire se questo è capace di creare valore aggiunto nei comparti a media-alta tecnologia, che sottende una domanda di lavoro almeno prossima a quella impartita agli studenti, servono queste precisazioni.

La caduta del 25% della produzione industriale e la perdita del 20% della struttura produttiva come dobbiamo considerale? Come potevano gli investimenti aumentare se nel frattempo cadeva la base produttiva preposta a realizzare gli investimenti? Il meno 34% di investimenti non è aneddotica, piuttosto è coerente con la base produttiva sopravvissuta alla crisi.

Provo a fare una provocazione. Nell’indagine dell’Istat si osserva che le imprese anagraficamente più giovani, cioè quelle con proprietario tra i 30-40 anni, intendono continuare ad assumere. Gli incentivi hanno dato una piccola mano, ma le posizioni lavorative sono ancora molto distanti dal 2007.

Il punto è un altro: i nuovi assunti sono relativi ai settori ad alta tecnologia, oppure ai settori a bassa tecnologia? Se fossero prevalenti le assunzioni nei comparti a basso contenuto tecnologico, e qualcosa nel rapporto si dice, vuol dire che la produttività diminuisce e, nel frattempo, abbiamo buttato via un sacco di soldi pubblici per formare giovani preparati per affrontare l’era dell’economia della conoscenza.

Non sarebbe proprio un bel risultato. La fuga di cervelli continuerebbe, così come il saldo negativo della bilancia commerciale tecnologica nazionale. È uno sfogo davvero un po’ amaro, ma se la competitività è indagata in questo modo, come possiamo individuare i vincoli di struttura che attraversa il Paese?

Ho la netta impressione che non riusciamo ancora a farci le domande giuste.

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