Dopo l’abuso del concetto di «guerra» per descrivere un fenomeno di natura diversa come una «pandemia» è arrivato il momento delle metafore del Dopoguerra: il «piano Marshall». A questa espressione ha fatto ricorso ieri la presidente della Commissione Ue Ursula Von Der Leyen che ha presentato il programma di sostegno alla cassa integrazione per i lavoratori dipendenti. Il piano permetterà anche di lavorare «a orario ridotto», mantenendo così «i dipendenti al lavoro», «mitigare gli effetti della recessione» permettendo «alle imprese di tornare sul mercato con rinnovato vigore». Lo strumento si chiama «Sure, acronimo di «Support to mitigate unemployment risks in emergency». In italiano significa: «Supporto per mitigare i rischi di disoccupazione causati dall’emergenza Covid 19». La traduzione dell’acronimo vuole essere rassicurante: «Sicuro». Saranno raccolti 100 miliardi per i 19 paesi dell’Eurozona in un fondo costituito da prestiti coperti con 25 miliardi di euro in garanzie fornite volontariamente dagli Stati e versati nel bilancio comunitario ancora da approvare. Non è ancora del tutto chiaro se in questo schema selettivo ci sarà spazio anche per i lavoratori autonomi. Al momento non si parla di fondi contro la povertà e l’esclusione sociale.

IL FINANZIAMENTO è inteso come una leva sui capitali già stanziati dai singoli stati per assicurare una continuità occupazionale ai lavoratori messi in cassa integrazione che perdono comunque una parte del salario. Solo il governo italiano ha stanziato nel «decreto Cura Italia» di marzo 5 miliardi di euro per gli ammortizzatori sociali, estesi alle imprese di tutti i settori per la durata di 9 settimane. Altri 3,3 miliardi servono per l’estensione della cassa in deroga ai settori attualmente non coperti, compresi alberghiero, agricoltura e pesca, anche per le aziende con un dipendente. Se il blocco delle attività durasse tra tre e sei mesi i fondi saranno ancora più necessari. E, probabilmente, non saranno sufficienti.

NEL PACCHETTO della Commissione Ue ci sono anche misure come la flessibilità dei fondi comunitari dello sviluppo regionale, il fondo sociale e di coesione al fine di sostenere gli sforzi finanziari causati dall’emergenza sanitaria. Ciò permetterà di spostare fondi rilevanti da una regione meno colpita dall’emergenza a un’altra, limitatamente ai fondi previsti per il 2020. Altre eccezioni sono state riconosciute alla politica agricola, pilastro del bilancio europeo.

QUESTO «PIANO MARSHALL» sarebbe la «più ampia risposta finanziaria ad una crisi europea mai data nella storia», Von Der Leyen ieri ha fatto la cifra di 2.770 miliardi di euro, sommando i fondi annunciati dagli stati membri al triliardo della Bce. È in atto una competizione simbolica con gli Stati Uniti di Trump che, tutto sommato, ha stanziato di più insieme alla Banca centrale Fed. Tutto questo serve ad orientare i mercati più oscillanti che mai. La cifra serve anche a rafforzare il ruolo di equilibrio, e prossimità, della Commissione rispetto ai veti incrociati dell’Europa intergovernativa che ha fatto crollare la residua fiducia in questo ectoplasma politico. Von Der Leyen intende farsi perdonare il pasticcio diplomatico combinato in un’intervista con l’agenzia stampa Dpa dove ha bocciato i «coronabond» sostenuti dal governo italiano, ma avversati da quello tedesco.

LA METAFORA del «Piano Marshall» è ambigua: il «piano» fu l’inizio dell’egemonia degli Stati Uniti, e della Nato, nella guerra fredda in Europa. Oggi, in tempi di nazional-populismo, l’allusione può essere ribaltata in una nuova campagna contro l’Ue «tiranna». Visto che in una politica dell’identità come quella postmoderna i simboli e le metafore sono tutto, il più scafato commissario all’economia Paolo Gentiloni ieri ha corretto il tiro precisando che il «piano Marshall sia pagato da noi europei, in parte dagli Stati membri e in parte insieme, e poi serve che parta non dopo la guerra ma adesso, si gioca il futuro della rinascita». Gentiloni ha ricordato che il «patto di stabilità» è stato «sospeso». In queste condizioni sarà difficile tornare ad applicarlo. Il progetto di revisione ipotizzato dalla Commissione Ue dovrà essere probabilmente ripensato. In questa discussione resta sullo sfondo il problema politico di chi dovrà pagare i costi sociali della «rinascita». Più presto, che tardi, diventerà chiaro che non siamo tutti uguali in una società capitalista travolta da una pandemia, non da una guerra.

GLI ANNUNCI di Bruxelles è stata fatta in vista di martedì 7 aprile quando tornerà a riunirsi l’Eurogruppo e dovrà trovare l’ago di una proposta economica nel pagliaio dei pochi governi influenti del Nord Europa che guardano in cagnesco la maggioranza degli altri. Sul tavola c’è una lista di soluzioni, variamente combinabili, che vanno da un «Fondo Salva Stati» con o senza condizionalità, il rifinanziamento della Banca Europea degli Investimenti (che registra un consenso crescente), la proposta francese di un fondo di simil-coronabond per finanziare le spese legate all’emergenza sanitaria. La prospettiva è il ricorso a strumenti diversi e in tempi diversi: Bei, Fondo Salva Stati, Commissione Ue e Bce. C’è poi la proposta caritatevole olandese di un dono da un miliardo. A questo governo, noto per il dumping fiscale a favore delle multinazionali, è sembrata eccessiva l’uscita del ministro delle finanze Hoekstra che voleva aprire un’inchiesta sull’Italia, paese con un alto debito pubblico e travolto dalla crisi sanitaria.