La proposta di direttiva sul salario minimo pubblicata ieri dalla Commissione Europea stabilisce un quadro legale uniforme fatto di norme minime nell’Unione Europea, nel rispetto delle competenze degli Stati membri e dell’autonomia delle parti sociali nella contrattazione. Il testo non fissa un salario minimo obbligatorio per raggiungere il 60% del salario mediano lordo, né armonizza le misure esistenti in 21 paesi membri su 27. Una volta approvata la direttiva, gli stati membri dell’Unione Europea avranno due anni per trasformare la direttiva in una legge nazionale.

L’orientamento della Commissione è «adeguare» i salari minimi esistenti e «garantire che i livelli» in vigore «non siano troppo bassi, perché i salari minimi in certi Stati membri rendono la vita impossibile. In questo momento la direttiva «è un segnale politico e sociale importante» ha detto Nicolas Schmidt, il commissario Ue per il Lavoro. Nel continente gli stipendi più alti possono superare quelli più bassi in media anche di sette volte, una differenza che non è così ampia nel costo della vita nella comparazione tra i singoli paesi.

Oggi nell’Unione Europea quasi il 10% dei lavoratori vive in povertà. Secondo una valutazione sull’impatto della direttiva, una tutela superiore del salario minimo potrebbe portare a una riduzione della povertà lavorativa e delle diseguaglianze retributive di oltre il 10% e alla riduzione delle differenze salariali tra uomini e donne del 5% in più. L’aumento del costo della forza lavoro per le imprese sarà mitigato dall’aumento dei consumi dei lavoratori. L’impatto negativo sull’occupazione dovrebbe rimanere sotto lo 0,5 %.

La Commissione Ue intende inoltre istituire un sistema di monitoraggio annuale sull’esempio di quelli già in attività sulla valutazione dei conti pubblici o sull’evoluzione della situazione macroeconomica in ogni paese. In questi casi la Commissione possiede un potere reale di intervento sui governi, garantito anche dai trattati europei in vigore. Sul problema del salario minimo e, in generale, sulle politiche del lavoro su quelle sociali, non ha invece lo stesso potere.

L’attività di monitoraggio di cui si parla nella direttiva dovrebbe consistere in una serie di azioni tra le quali c’è l’invito a garantire il rispetto delle retribuzioni fissate nei contratti collettivi negli appalti e nei subappalti, lungo le filiere dove le condizioni salariali sono peggiori. L’auspicio è quello di garantire un rapporto tra l’adeguatezza dei salari minimi rispetto alla contrattazione collettiva, sia nei paesi in cui il salario minimo è stabilito dai contratti collettivi di lavoro, sia in quelli dove è stabilito legalmente al di fuori della contrattazione. Nelle intenzioni della Commissione ciò dovrebbe permettere di estendere la contrattazione nei paesi dove attualmente è inferiore al 70% della forza lavoro attiva e mantenere il salario minimo ad un livello dignitoso. Il tentativo di creare una convergenza tra legislazioni e soggetti diversi rientra tra gli obiettivi concertativi perseguiti da almeno una generazione in ambito europeo: quello del «dialogo sociale». Un dialogo più auspicato, che realizzato, considerando il modo in cui i salari e i profitti si sono divaricati almeno dalla crisi del 2008 a oggi.

«È un traguardo positivo – ha commentato il presidente del parlamento Ue David Sassoli (Pd) – Siamo pronti a metterci al lavoro». «Indica la strada da seguire» ha aggiunto il ministro degli Affari Ue, Enzo Amendola (Pd). L’Italia è uno dei sei paesi europei privi di un salario minimo legale. La maggioranza dei sindacati è diffidente perché indebolirebbe la contrattazione. Pd e Cinque Stelle hanno presentato proposte di legge, mentre è ancora in corso al ministero del lavoro lo studio su una misura più volte annunciata.