La proposta di legge avanzata governo israeliano (che prevede il diretto controllo della commissione statale, ndr) distruggerà il cinema in Israele. Non ha dubbi Amos Gitai che ne è la figura internazionalmente più emblematica anche quando dal suo Paese era lontano, tra Parigi e New York, poi tornato con l’entusiasmo dell’elezione di Rabin e di nuovo fuggito dopo il suo assassinio indagato in diverse sue opere. Quella frattura finora quasi «apparente» tra immaginari critici, quali sono i più interessanti nelle nuove generazioni del cinema israeliano, e la politica governativa che nonostante il dissenso li finanzia (come vuole una società «democratica» era anche la leva su cui si fondava la vitalità espressa in questi decenni che ora, appunto, rischia di essere inghiottita dalla propaganda. Lui le distanze le ha affermate da tempo, in ognuno dei suoi film che del suo Paese tracciano una cartografia oltre i miti fondanti e l’attualità nel rapporto tra passato e presente, nel movimento tra l’Europa e la «terra promessa».

Cè un passaggio molto bello in A Tramway in Jerusalem quando l’allenatore della squadra di Gerusalemme viene intervistato dalla televisione e al suo posto risponde un fantomatico vice, parla per lui su tutto, dai giocatori al cibo, e l’uomo che arriva dall’Europa non riesce mai a prendere la parola. Quel silenzio, quella bocca riempita di frasi altrui secondo le quali tutto è fantastico restituisce nella sua violenza la direzione presa da Israele oggi e in qualche modo la sua Storia.

A Tramway in Jerusalem è il nuovo film del regista presentato ieri fuori concorso insieme al potente corto A Letter to a Friend in Gaza. L’idea è semplice e viene dichiarata sin dal titolo: un tram che attraversa la città centro spirituale delle tre religioni monoteiste, islam, cristianesimo, ebraismo, da est a ovest dove si mescolano le componenti della società israeliana e i suoi conflitti, spazio ristretto dove diventa possibile fare fronte allo scontro invece che alimentarlo: un’utopia? La scommessa è restituirla attraverso le immagini ma la natura politica del cinema di Gitai è sempre determinata dalla messinscena, da uno sguardo in cui ogni movimento della macchina da presa è di bellezza sorprendente e però mai fine a stesso.

Eccoci dunque tra ortodossi integralisti, machi della sicurezza che aggrediscono ogni donna bella e sola, razzismi quotidiani contro chi appare come «un arabo», tensioni familiari, un uomo e una donna che hanno idee opposte sulla scelta di avere un figlio, due giovani donne una palestinese e l’altra ebrea con passaporti di mezzo mondo che rivendicano una «nazionalità astratta» incomprensibile al poliziotto – e l’opposto dello stato-nazione ebraico appena sancito dal parlamento israeliano. Memorie yiddish, nella lingua parlata dalla «Jew Mama» incapace di capire come mai il figlio accudito con tanto amore sia divorziato mentre quello dell’amica che gli scaldava il cibo nel forno a microonde è affermato professionista con due figli; un viaggiatore che esplora Gerusalemme insieme al figlioletto seguendo la traccia di Flaubert (è Mathieu Amalric); due fanatici militaristi a cui l’uomo prova a opporre la bellezza del clima e del paesaggio (come spesso fa Gitai) inutilmente; un conduttore radiofonico che dedica la sua trasmissione a Trotszky e alla sua idea di socialismo; un prete che parla di libertà – Pippo Delbono bellissimo; un soldatino che saluta la sua ragazza facendole promettere che non piangerà.

Tra i volti, in primo piano di questa commedia umana e tra le loro storie è come se Gitai disseminasse frammenti di sé, la sua biografia personale e di artista, le sue convinzioni, la sua ostinata voglia di mettere alla prova il cinema e la realtà, la ricerca nel patrimonio di un passato europeo (da cui arrivava il padre architetto del Bauhaus), un racconto pubblico e privato di una società che ha dimenticato di interrogare se stessa. A Tramway in Jersualem è quasi un archivio (non a caso vi ritroviamo molti attori che hanno lavorato col regista) che afferma al tempo stesso l’ininterrotto desiderio di mettere alla prova le proprie immagini, quella spinta che rende il cinema vitale.