Era stato Mario Praz, su sollecitazione di Giovanni Papini, a tradurre nel 1932 i Saggi di Elia di Charles Lamb. Il libro del saggista inglese è uno dei primi costruiti raccogliendo articoli, spesso autobiografici, pubblicati altrove. Il suo successo nell’Inghilterra vittoriana diede avvio a un genere. La versione italiana fu criticata da Emilio Cecchi – «senza pulimento, ritmo, frizzo verbale» –, ma per Praz quell’antologia fu una rivelazione: «se mai mi fosse riservata la ventura d’incontrarlo nell’Oltretomba, gli cadrei davanti in ginocchio, venerandolo come pater Elias». La prima raccolta dei saggi di Praz è del 1943; ne seguiranno molte altre, ognuna, dirà, è un «documento di poche idee e di molte manie», «un armadio delle calìe», delle futilità, un guardaroba dove si custodiscono «relitti buttati su quella riva del gran mare dell’essere» e «pochi capi interi». È un approccio al libro che gli è congeniale, per parlare di sé e della vita attraverso l’erudizione e i suoi infiniti interessi, occupandosi di ciò che è alieno alla standardizzazione della società di massa e che è in apparenza lontano dall’essenziale, ma che può celare le sue pene, le sue malinconie, le sue passioni: i ninnoli, i mobili ricercati, le porcellane, le meraviglie bizzarre da Wunderkammer. Gli accostamenti degli oggetti e dei saggi evocano atmosfere, generano paradossi talvolta ironici, incandescenti, in un’affermazione costante della propria sfaccettata individualità.

Tra gli altri, nell’ultimo libro di Alvar González-Palacios, Solo ombre Silhouettes storiche, letterarie e mondane (Archinto, pp. 260, euro 28,00), c’è anche un piccolo ritratto di Praz. Se la scelta dei temi e dei luoghi frequentati da uno studioso non è mai accidentale, a volte lo sono gli incontri. Praz e Mario Schifano si trovano vicini di casa a Palazzo Primoli a Roma. Sembrano incompatibili tra loro; Visconti ne ricaverà un film.
Come per Lamb e Praz, un insieme di predilezioni può diventare un’implicita autobiografia. Così è anche in Solo ombre, un’antologia di saggi, recensioni, appunti cesellati e ricuciti in un volume in cui si susseguono perlopiù profili di personaggi e vicende storiche riemerse dai ricordi, dalle conversazioni, dagli studi, dai sogni. È una collezione di ritratti che riproduce i contorni di ombre transitate nella memoria, silhouettes che hanno sollecitato il mondo intimo della fantasia e del sentimento. Tutto si tiene in un concreto, appassionato e quotidiano rapporto con le varie vicende della carriera di storico dell’arte, e quindi della vita, dell’autore.
Nei piccoli saggi apparentemente frivoli, spesso illuminanti – o brillanti e fluttuanti come cocuyus, le grandi lucciole di Cuba – sono analizzati perlopiù materiali che non appartengono strettamente alla storia dell’arte, ma si legano alle trame della grande commedia umana: lettere, diari, biografie e autobiografie. A volte i personaggi già trattati riappaiono nelle pagine dedicate ad altri, le storie si intrecciano. È la rappresentazione di un mondo dove tutti conoscono tutti, una monumentale narcisata che attraversa epoche e gusti diversi dove impagabili sciocchezze, lussi eccessivi, supponenza, volubilità, pettegolezzo, snobismo, possono associarsi a culture profonde e menti schiette. Da questi rapporti di qualità González-Palacios, esule tra persone e oggetti erranti, con un’attenzione particolare per chi è mosso da passioni non corrisposte, per gli incompresi, sembra stillare i segreti dell’intelligenza della vecchia Europa.

Una lingua inventata

L’idioma con cui scrive González-Palacios è l’italiano, per lui «una lingua inventata», non lo spagnolo imparato a Cuba dove ha passato l’infanzia e parte della giovinezza. La parola materna continua a gorgogliare nel sottosuolo del libro e si percepisce come il profumo di una mariposa, il fiore nazionale cubano, messa a seccare tra le pagine.

Come la lingua, gli spiriti delle origini emergono spesso perché «quando si giunge a un certo punto della vita e i conti cambiano ordine e forse prospettiva, i ricordi della prima infanzia ritornano vivi, soffusi di altra luce per luoghi, persone e persino cose». Sono memorie stimolate da un aroma già sentito, da immagini già viste e sensazioni già provate, come l’atmosfera cupa e minacciosa dei dipinti di Jean-Michel Basquiat, disseminati dei simboli apotropaici della cultura nera. Basquiat, nato a New York da madre portoricana e padre haitiano, traspone nei quadri la potenza atavica dei riti caraibici, il senso esoterico del mondo e quell’atmosfera limacciosa di morte che gli viene dalla mitologia dei luoghi paterni. González-Palacios associa Basquiat al grande pittore cubano Wifredo Lam. È il primo ad accorgersi di un rapporto che, una volta recuperato, sembra tanto naturale. Altri serpenti, diavoli, teschi e allusioni beffarde alla morte sono nelle stampe dell’incisore messicano José Guadalupe Posada, tra i temi del primo incontro tra González-Palacios e Roberto Longhi, come se vita e morte si intrecciassero sempre o gli spiriti del passato sovrintendessero su ogni luogo, in ognuno degli appuntamenti importanti dell’esistenza.

A volte l’evanescenza della storia toglie i connotati anche alle opere d’arte. È esemplare in questo senso il saggio sulla Danzatrice con i cembali di Antonio Canova ora a Berlino. Quando González-Palacios la vide, la scultura era conservata all’hôtel de Masseran a Parigi. Quasi fosse in un racconto di Henry James, il marmo sembrava animato da una forza d’attrazione, combinazione di bellezza e mistero. Mai pubblicata come opera di Canova, senza documenti, la sua autenticità poteva in quel momento essere provata solamente dall’occhio di un conoscitore. Agisce così, per rimbalzo mnemonico, un istinto nutrito di esperienze visive che trova all’opera un posto nel repertorio di immagini sedimentato nei ricordi dello storico dell’arte. Poi la prima attribuzione si deve razionalizzare e affiora l’inquietudine del dubbio. Ma il riconoscimento istintivo dell’autografia canoviana della Danzatrice risulta essere esatto: è un capolavoro dello scultore il cui itinerario da una capitale all’altra d’Europa non è ancora del tutto definito. Vale, di nuovo, l’esperienza da conoscitore: «ogniqualvolta io abbia cercato di convincermi dell’autenticità di un’opera attraverso la mente piuttosto che attraverso l’occhio, mi sono sbagliato».

Esuli e funerali

Questo continuo errare delle opere e delle persone è un altro tema che si svolge nelle pagine di Solo ombre. Molti dei personaggi descritti sono esuli, spesso lontani dalla patria di provenienza, scelgono di vivere nel mondo e stanno – bene o male – dove scelte e circostanze li hanno portati: Gertrude Stein, Lord Byron, Karen Blixen, Ernest Hemingway, Nancy Mitford… Chi si ferma, come Carlo V, allestisce ancora in vita il proprio funerale.

Le opere d’arte sembrano vivere questo stesso destino. La nostra idea del passato è condizionata da molte interferenze ed è, inevitabilmente, mutevole. I valori universali sono pochi, spesso discutibili, così ogni epoca sceglie la propria bellezza e inventa i propri sistemi di valori spostando e modificando i pezzi (le opere) di un edificio che si pretende definitivo. Comprendere tutto, amare tutto, è impossibile. Lo dimostrano Dominique Vivant Denon e il suo immenso, e per fortuna effimero, Musée Napoléon, il più grande insieme museale mai esistito, un’utopia folle costruita in nome della ragione.

Come Denon o Maria Antonietta, alcuni personaggi sembrano incarnare l’essenza di un’epoca. La regina di Francia, non sciocca e nemmeno troppo ignorante, era anestetizzata in una ricerca eccessiva di eleganza. Il suo corpo è feticcio e alla fine, malconcia, sarà di nuovo un simbolo. David la ritrae, con pochi tratti di penna, seduta nella carretta dei condannati: ha le mani legate dietro la schiena, i capelli raccolti in una cuffia per non ostacolare la lama della ghigliottina, l’occhio basso e una smorfia quasi capricciosa, concentrata in un pianto smorzato. Un’altra morte, un altro spirito, un’altra ombra che passa tra le pagine del libro di González-Palacios, tra le corrispondenze variabili che ogni rilettura suggerisce. Come gli accostamenti delle cose «bizzarre e malinconiche» del guardaroba di Praz, come quando si cambia la disposizione dei mobili e degli oggetti nella casa della vita.