Le catastrofi sono la dimostrazione del potenziale distruttivo del mondo, ma sono anche oggetti culturali costruiti attorno alla rappresentazione di un fosco evento in grado di cambiare radicalmente il destino dell’umanità. Gli eventi disastrosi hanno sempre fatto parte della storia, tuttavia, nel Novecento la profonda trasformazione dei mezzi di comunicazione ha velocizzato e ingigantito la trasmissione delle notizie rendendo universale la dimensione della paura del rischio che ha finito per essere non già elemento prodromico alla società moderna, quanto costitutivo della stessa. Sostiene Michaël Foessel che la paura della catastrofe apocalittica alimenta la coscienza della nostra vulnerabilità e quindi genera un processo positivo nei confronti del mondo (préserver la vie piuttosto che sauve qui peut la vie); ma, al contrario, c’è chi predice la via nichilista: la paura è uno stato d’animo che immobilizza.

La stampa
Il Novecento si annuncia ben presto come il secolo delle angosce collettive. Il 7 febbraio del 1910, il New York Times annunciò che l’osservatorio Yerkes aveva scoperto la presenza di cianogeno nella coda della cometa di Halley, il quotidiano però glissava sul fatto che si trattava di quantità irrilevanti e che per gli astronomi non c’era modo che raggiungessero l’atmosfera terrestre. Camille Flammarion divulgò, seppure con prudenza, che la coda della cometa era davvero composta di velenosi gas cianogeni. I giornali ripresero la notizia in prima pagina seminando il panico universale.

Le Petit Parisien condannò l’ignoranza che dominava il mondo: « dalla profondità della Russia, tra i contadini ungheresi, nelle lontane provincie della Cina, tra i popoli africani certe popolazioni delle campagne italiane, molto superstiziose, che da più di quindici giorni passano le loro ore nella preghiera in attesa della catastrofe»; ignoranza certo, ma il giornale non mancava di definire la cometa come réactionnaire perché influenzava in modo negativo le elezioni politiche. Si aspettò la «fine del mondo» con feste, preghiere e, purtroppo, suicidi (i gas non uccidono per contagio, ma la paura sì). Negli Stati Uniti si vendettero migliaia di maschere antigas, di inutili pillole per contrastare gli effetti dei cianogeni e la Michelin mise in commercio la bottiglia contenente «aria purissima».

Fake News
La paura dell’astro vagante non è nuova e si prospetta periodicamente. Già nella primavera del 1773, Parigi fu pervasa dal panico allorché l’astronomo Jérôme Lalande predisse la possibilità che una cometa potesse scontrarsi con la Terra. Da «possibilità» teorica a «probabilità» imminente: un’ipotesi scientifica divenne una «falsa notizia» che s’inserì in un contesto culturale diviso tra continuisti e catastrofisti e la trasformazione di un’ipotesi in probabile realtà trovò terreno favorevole nei pregiudizi della società parigina di fine Settecento. Perché un’ipotesi si propaghi amplificandosi di bocca in bocca è necessario che essa trovi «nella società un terreno di coltura favorevole», come ha scritto Marc Bloch, che vi siano cioè le condizioni per la sua accettazione.

E tanto più la società possiede i mezzi per farla circolare rapidamente (giornali e media visivi), tanto più amplifica la paura del rischio della catastrofe. Nei confronti del rischio l’uomo si misura con la «controversa realtà delle possibilità» e cerca di predisporre le adeguate contromisure per evitare che l’evento temuto si concretizzi. Cerca di predisporle se è possibile evitare il fatto, ma se la catastrofe è inevitabile, allora si entra nel regno irrazionale della paura: si ritorna a una concezione pre-moderna del rischio quando l’azione umana era nulla. Come sostiene Ulrich Beck, mentre la catastrofe ha un punto temporale preciso (avviene in un momento), il rischio (ovvero, la sua percezione), che temporalmente la precede, è dilatato e perciò quello che conta è la sua «messa in scena» che costruisce e allo stesso tempo colma il divario tra la catastrofe immaginata e quella reale. Nel 1910, nonostante le rassicurazioni scientifiche, con l’avvicinarsi di Halley «anche gli scettici finivano col subire il contagio dell’ambiente, ormai pervaso da questo ancestrale timore» e «il ricordo biblico della punizione divina di Sodoma e Gomorra agitava gli animi, facendo apparire la catastrofe temuta come la giusta punizione di una umanità corrotta».

Il cinema
L’arrivo della cometa condensava paure epocali e inquietudini collettive in un «clima di ansiosa aspettazione apocalittica».
Se il «rischio» è l’immaginazione del disastro, il cinema allora è la concretizzazione dell’immaginazione del rischio. L’approssimarsi della cometa nel 1910 fu uno dei primi eventi ad avere una caratteristica mediatica mondiale e l’industria cinematografica non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione. Se è vero che né la letteratura né il cinema possono essere considerate prove testimoniali dirette, è anche vero che possono essere valutate come «mezzi legittimi per analizzare il senso di inquietudine dei contemporanei nella misura in cui sono il prodotto dell’epoca alla quale appartengono». Il cinema sfruttò industrialmente il «dibattito pubblico» della sua epoca e rappresentando allo stesso tempo l’esprit du temps contribuì ad amplificare lo stesso dibattito per un pubblico di massa: fu un agente d’inquietudine e non solo il prodotto delle paure collettive, alimentando quel che Pascal Bruckner definisce «il fanatismo dell’Apocalisse».

Nell’aprile del 1910 esce nei cinema The Comet che ottiene un grande successo di pubblico. Le prime inquadrature del film mostrano l’evidente influenza di Méliès: un cartone disegnato con il volto ridente della Luna che guarda la Terra squarciata dalla cometa mostruosa. Ma è un’immagine anche in linea grafica con le miriadi di cartoline ironiche pubblicate nel 1910 che evidenziavano uno stato d’animo contraddittorio: l’inquietudine esisteva ma allo stesso tempo la si esorcizzava e la si usava commercialmente.

La pubblicità
L’advertising, ad esempio, sfruttò la cometa per pubblicizzare prodotti come il sapone (Pears’ Soap), bibite efferfescenti (Poinsetta), il rasoio (Clemak, che nell’immagine sconfigge la meteora), whisky (Comet Wiskey), penne (Waterman, il cui motto era: Fixed and shotting stars), mostrando che esisteva il contagio collettivo poiché la pubblicità sfrutta sempre il comune sentire. Di film che utilizzavano la «cometite», la paura della fine del mondo, ne uscirono altri nel 1910: Der Traum eines Astronomes, Das Ende der Welt, Enfin la Comete!, Der Halleysche Komet Kommt!.

Il cinema si mise subito al lavoro per sfruttare le inquietudini ottenendo un grande successo di pubblico: in fondo, è meglio esorcizzare la paura con la finzione della paura stessa. La cometa passò e la danza macabra finì. Di lì a poco, con la Prima guerra mondiale, si avverò davvero l’apocalisse: il «segno grandioso» aveva annunciato non la fine del mondo, ma di un mondo e l’inizio della Modernità della paura.