È una meritevole iniziativa, dopo poco più un decennio dalla sua scomparsa, la mostra che su Carlo Aymonino (1926-2010) hanno ideato le sue figlie Livia e Silvia alla Triennale di Milano, curata da Manuel Orazi dal titolo: Carlo Aymonino, Fedeltà al tradimento (fino al 22 agosto), allestita in un inusuale e giocoso format «pop-up» del tutto inaspettato. La scenografa Federica Parolini l’ha scelto per raccontare a tuttotondo il nostro protagonista utilizzando un gran numero di materiali tra fotografie tratte dai suoi album, lettere, fumetti, collage e disegni, disponendoli sulla lunga parete esterna nell’emiciclo del Palazzo di Muzio. É così illustrata la lunga e intensa attività dell’architetto romano divisa tra professione, insegnamento (Palermo, Venezia, Roma) e politica.

SARÀ LA SUA MILITANZA fin da giovane nel Pci («Ho pensato – scrive a Luciana Castellina, l’amore della sua adolescenza – che il regalo più bello e certamente più sostanzioso è di comunicarti la mia decisione di iscrivermi al partito») a condurlo, tra il 1981 e il 1985, alla nomina di assessore per gli interventi al centro storico di Roma delle giunte Petroselli e Vetere.
La finalità di questa mise-en-scène è di rendere «visibile e fruibile la stratificazione della sua vita» espediente che costituisce l’elemento di originalità dell’esposizione, ma al tempo stesso anche il suo limite. L’avere scelto, infatti, di conciliare l’opera con il personaggio, meglio con il lato vitalistico della sua persona fatto di amori, amicizie e slanci ideali fa smarrire il carattere problematico della sua produzione dalla quale si potrebbe ricavare ancora qualche insegnamento per il presente. Ad esempio sul valore dell’analisi urbana quale «uno dei pochi strumenti che possono dare contenuto logico alla progettazione» (Il significato delle città, 1975).

In questo senso, è nell’«illogico» procedere della generazione di architetti che gli è succeduta e che si è resa complice dell’attuale deregulation urbana, che si è compiuto il vero «tradimento» in quanto la lezione di Aymonino è rimasta inascoltata. Di là della digressione sarebbe stato più produttivo, quindi, ragionare al contrario, invertendo il «focus»: dall’architettura all’«uomo». Rammentare in sostanza quanto già scritto da Hermann Broch che «tutte le espressioni della vita» sono pervase dallo «stile», il quale si manifesta con la sua unicità nella «dimensione spaziale».

GIORGIO CIUCCI fu il solo nel 1979 a cogliere quest’aspetto immanente dello «stile» che chiamò «segno» e che il visitatore può leggere tra le molte testimonianze raccolte in catalogo (Electa): «Non esistono, per Aymonino, vite parallele ma esperienze uniche e prevalenti, da seguire nella loro complessità e nella loro evoluzione. Siamo noi che dobbiamo operare uno sdoppiamento, isolando la sua vita privata dalla sua vita pubblica».
Come per lo scrittore austriaco anche per l’architetto romano, infatti, «superare» le inquietudini dei propri anni è stato forse pensare alle arti figurative (prima) e all’architettura (dopo), quali «combinazione di spazi logici pluridimensionali» che nello «stile», o nel «segno», danno «essenza» alla vita per significarla e così resistere al trascorrere del tempo.

IL PERCORSO ESPOSITIVO dà conto di quest’avida ricerca espressiva e conoscitiva che nel disegno trova lo strumento più affidabile e duraturo: dagli esordi giovanili nell’arte figurativa del dopoguerra nell’orma di Guttuso, con la quale si apre la mostra, alla scultura monumentale del Colosso (1982-84) creata per l’area del Colosseo, con il quale la nostra visita termina. È il disegno, infatti, come dirà lui stesso, che ci «permette di misurare, inventare, di capire attraverso le forme il mondo che ci circonda».
Nell’arco di un quarantennio Aymonino si è confrontato con gli argomenti centrali del dibattito architettonico e urbanistico del secondo novecento: dalla ricostruzione postbellica (Quartiere Tiburtino Ina-Casa a Roma, 1950-54) all’abitare sociale (Quartiere Spine Bianche a Matera, 1950-57; Complesso residenziale Monte Amiata al Gallaratese di Milano 1967-72), dall’edilizia scolastica (Campus scolastico a Pesaro, 1970), allo spazio pubblico (Piazza Mulino a Matera, 1987-91) e a quello museale (Progetto per il Campidoglio a Roma, 1993-2005), dalla crescita urbana (Proposta Roma Est, 1973) ai centri storici (Piano particolareggiato di Pesaro, 1970-74).

Non c’è tema che non l’abbia riguardato da vicino fornendo ogni volta delle soluzioni, mai una teoria, di sicuro un metodo. Negli anni Cinquanta si fa partecipe della stagione del neorealismo architettonico della «scuola romana» inaugurata da Quaroni e Ridolfi. Sarà da quella giovanile esperienza, pur «sconfessata» ma decisiva secondo Tafuri, che un decennio dopo elaborerà un «lessico fatto di affabulazioni» disponibile per misurarsi con la morfologia della città e che Orazi traduce in «figurazioni urbane».
La partecipazione a concorsi nazionali ed esteri lo fece conoscere in campo internazionale, senza però che gli giungesse quella fortuna critica che arrise invece ad Aldo Rossi, con il quale nel 1968 all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (Iuav), diede origine al «Gruppo Architettura»: fucina didattica che permise alla «generazione di mezzo» della quale faceva parte, di scandagliare i «fenomeni urbani» attraverso inediti percorsi disciplinari e nuove categorie interpretative.

QUANDO NEL 1980 terminerà il suo lungo periodo veneziano (allo Iuav lo chiamò nel 1963 Giuseppe Samonà e ne divenne rettore nel 1974) e ritornerà a Roma, a parte l’impegno di amministratore pubblico che abbiamo detto, l’occupò un’intensa attività progettuale che la mostra documenta in maniera esaustiva, ma purtroppo saranno pochi i progetti realizzati: il Teatro di Avellino (1987), il recupero dell’area Andrisani a Matera (1988-91), gli Alloggi Iacp alla Giudecca di Venezia (1984-2004).
Tra quelli incompiuti c’è il Progetto Fori Imperiali per «fare di Roma una città capitale»: un intervento tra i più complessi, molto discusso e dove si spesero molte energie. Il tema è ancora lì irrisolto, anzi aggravato dall’immobilismo politico e l’assenza di un’autentica discussione sulla città e le sue architetture.