Le scene e i costumi di Tullio Pericoli fanno dell’allestimento de L’elisir d’amore di Gaetano Donizetti in cartellone al Teatro alla Scala questi giorni un capolavoro di leggerezza colta. Le sottigliezze caricaturali di Daumier, la sbrigliatezza irrazionale di Dalì, i cromatismi di Chagall e la semplicità prospettica del Wanderbühne, aiutate dalla regia di Grischa Asagaroff, che coniuga la pantomima col teatro di rivista, e dalle luci meridiane di Hans Rudolf Kunz, restituiscono a questo «melodramma giocoso» la carica di freschezza naïve e trasognata che il compositore, insieme al fido poeta Felice Romani nel 1832 cercarono, nel tentativo di lasciarsi alle spalle l’eredità insuperabile dell’opera buffa rossiniana, all’epoca ancora dominante nei teatri di tutta Europa.

 
Lo stratagemma fu quello di fondere l’italianissima commedia col dramma sentimentale alla francese (il cosiddetto genere larmoyant), facendo subire agli automi strappariso che solo il genio di Rossini aveva saputo tenere gloriosamente in vita così a lungo, distillando l’eredità settecentesca di Guglielmi, Jommelli, Paisiello, Pergolesi, Piccinni e Sacchini, un processo di umanizzazione; attraverso la riforma in chiave realistica della trama, ma soprattutto attraverso una caratterizzazione melodica inusitata.

 
A Nemorino, veicolo di gran parte del sentimentalismo dell’opera, invece del canto di agilità impostato su formule melismatiche, viene riservata una vocalità «spianata», che si muove prevalentemente nel registro centrale (si pensi alla romanza più famosa dell’opera, «Una furtiva lagrima»), aprendo la strada a un nuovo tipo di tenore per l’opera comica, il cosiddetto «tenorino di grazia». Adina, che all’inizio, capricciosa e volubile, ha una linea di canto ricca di fioriture, poi, rinsavita e innamorata, ripiega su una cantabilità più lineare e malinconica. Belcore, militare vanaglorioso, si esprime in toni pomposi, su ritmi puntati, annunciato da rulli di tamburo e accompagnato da musiche marziali. Dulcamara è l’unico che, con la sua eloquenza truffaldina modulata in un canto prevalentemente sillabico, rientra nella tradizione dell’opera buffa.

 
Pericoli ha colto perfettamente nell’opera questo sforzo di «costruire» una nuova idea di semplicità melo-drammaturgica. La direzione di Fabio Luisi, che spazia da Rossini a Strauss passando per Verdi e Wagner, cerca nella partitura dell’Elisir la pulsione festosa: staccando tempi rapidi non lesina timbri e volumi, pur centellinando nell’esecuzione delle romanze a più alto indice di pathos malinconico.

 

 

Il cast si disimpegna bene sia vocalmente che scenicamente, a meno di qualche pecca minore nell’esecuzione dei tempi dei pezzi d’insieme: Eleonora Buratto risolve le due anime di Adina, quella d’agilità e quella lirica, con un controllo tecnico che le permette di minimizzare i limiti naturali di estensione e volume della sua voce, disegnando un personaggio credibile e seducente; Vittorio Grigolo, costretto dalla scrittura del ruolo a rinunciare agli artifici con i quali di solito scurisce la voce e agli eccessi mimici cesella un Nemorino sfumato, simpatico, centrato; Mattia Olivieri restituisce un Belcore vocalmente ben tornito, a tratti un po’ legnoso nel gesto, ma nel complesso azzeccato; Michele Pertusi è parso più di tutti convincente scenicamente ma a tratti flebile vocalmente; delicata la Giannetta di Bianca Tognocchi. Come sempre impagabile il coro diretto da Bruno Casoni.