Approda al Colosseo lo storytelling sperimentato, negli ultimi dieci anni, dal Grande Progetto Pompei. La chiave di lettura della mostra, più che dal Pompei del titolo, è fornita dal catenaccio: 79 d. C. Una storia romana (visitabile fino al 9 maggio, a cura di Mario Torelli, recentemente scomparso, la rassegna è promossa dal Parco archeologico del Colosseo, con l’organizzazione di Electa, la collaborazione scientifica del Parco archeologico di Pompei e del Mann di Napoli).

L’INGRESSO, al secondo ordine del monumento, avviene attraverso un rosso portale inserito oltre l’esposizione permanente che racconta il Colosseo come simbolo dell’Impero. All’esterno, una doppia linea parallela del tempo intreccia le due narrazioni: il mito di Roma, quello della città vesuviana. In basso, si distende l’ecumene secondo la Tabula Peutingeriana, dalle Colonne d’Ercole a Ceylon. Pompei, al di là del portale rosso, si intravede, quasi fosse un obiettivo latente della storia e della geografia antiche, un’escatologia deterministica finalizzata al compimento dell’eternità di Roma. E, varcata quella porta, si presenta in medias res nella sua scapigliata vitalità, grazie all’affresco raffigurante la nota rissa contro i nocerini deflagrata nell’anfiteatro pompeiano, primo di tanti prestiti del Mann.

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POI C’È LA GUERRA, con le ricostruzioni lignee di una balista e di una catapulta, certamente utilizzate dai legionari di Silla nell’89 a. C. per espugnare una città preparata all’assedio, tanto da predisporre istruzioni dipinte a uso della resistenza nei punti critici delle mura difensive. Con Silla comincia una storia romana, quella di una colonia mediterranea che perde l’autonomia per diventare un centro commerciale funzionale al cuore del potere e, forse, alla sua conquista del futuro.

L’OCCHIO È CATTURATO dalla riproduzione di una nave oneraria ospitante dodici anfore da trasporto per il vino, conservate presso le Terme di Diocleziano. La vera notizia, al lato, è tuttavia una statuetta indiana ritrovata in un edificio pompeiano abitato probabilmente da impresari navali. È la prova inconfutabile della vastità del commercio alla base delle ricchezze locali. Lo sguardo è malizioso, le forme in evidenza. In epoca fascista, quando Pompei bisognava svelarla secondo i dettami della classe politica dirigente, fu relegata per pudore nel Gabinetto segreto del Mann, dove erano confinati i reperti considerati «sconci».

OGGI È INVECE IN VOGA stuzzicare il grande pubblico chiamando in causa la singolarità delle passioni, nelle quali si ritiene ciascuno possa identificarsi facilmente. Di fatti lo spazio successivo è riservato alla luxuria, contrapposta a quel mos maiorum messo puntualmente in crisi dal rinnovamento antropologico e sociale seguito alle conquiste marittime e al mercato globale. È l’idea – indagata a fondo dalla storiografia – di una romanità periferica senza censura e per questo autentica che torna regolarmente a fare la fortuna di riletture del passato in cui pare di veder proiettate le crisi del presente, con i quiriti troppo casti e ingessati e i provinciali meno inibiti, più schietti e perciò simili a noi. E quindi ammiriamo il presagio di pesche luculliane nel mosaico con fauna marina dalla Casa del Fauno, con oltre due secoli di anticipo su Trimalcione, e i primordi di una scienza ammantata di molle raffinatezza in una imponente terracotta del III a. C. Proviene da un tempietto nel Quartiere dei Teatri; fu Winckelmann a identificarla con Esculapio.
La mostra prosegue – e almeno qui traspare l’ordine che doveva avere in mente Mario Torelli, cui è dedicata – illustrando il processo di romanizzazione innescato da Silla. Il centro campano, prima alleato ora colonia, si avvicina a Roma scoprendo il culto imperiale: belli i ritratti esposti, ma viene da Pompei solo un busto in bronzo di Tiberio. Pompeiani sono invece i marmi di Marcus Holconius Rufus, loricato, Marcus Tullius, togato, e Eumachia, che aveva onorato Livia distinguendosi per evergetismo nel Foro, ricompensata dal privilegio di riposare nella maggiore sepoltura cittadina.
La sezione migliore dell’altrimenti poco leggibile esposizione, coincidente con l’effettiva importanza documentaria di Pompei, narra il rinnovamento del linguaggio artistico promosso da Augusto, che seppe puntare con sistematicità sulla linearità di un simbolismo capace di veicolare alle masse i concetti chiave cari al potere.
Splendidi gli affreschi dalla Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase: un paesaggio idilliaco; il rosso essenziale e vivissimo di una parete. Significativa anche l’incisiva presentazione sull’arte plebea: un filone alieno al canone tradizionale della misura, perché per artigiani e liberti la chiarezza conta più dell’equilibrio. Prefigurano la pittura medioevale i tre affreschi pompeiani esibiti: un quadretto con lari e serpenti, una caotica processione sacrificale, una sfilata di falegnami.

DEL TERREMOTO del 62/63 d. C. e dell’eruzione definitiva si dà notizia per lo più con i pannelli, che si concludono con la lettera di Plinio il Giovane a Tacito, cui racconta la morte dello zio. Sull’onda di un pathos eccessivo, il visitatore si immerge nel video di commiato. Sui basolati, lo scalpiccio dei sandali di una ragazza in fuga, mentre sullo sfondo il Vesuvio esplode, necessario come il tradimento di Giuda, perché sembra di capire così fosse scritto. La scena cambia: nei calchi, le agonie di un cane e di un adulto con bambino. In sottofondo, il tremolio di fuoco e fiamme. Volti in marmo, che i rumori suggeriscono doloranti, vengono incontro allo spettatore. Una strizzata d’occhio alle aspettative pregiudizialmente attribuite a un grande pubblico che, peraltro, per via della pandemia non può accorrere. La classicità, se non proprio controllo morigerato delle emozioni tramite il progressivo accendersi dell’intelletto, al limite è un concetto diverso da una tragedia mediatica di una storia romana del 79 d. C. Roma non è stata costruita in un giorno, nemmeno la si può ridurre al fermo immagine espressionista di un estemporaneo vulcanico evento, che sia accaduto in agosto o in ottobre.