Se Dario Franceschini, capodelegazione del Pd al governo, e Stefano Buffagni, influente parlamentare 5S, avessero coordinato le due interviste con le quali, su due grandi quotidiani, hanno cercato ieri di fare scudo al premier sottoposto a un non dichiarato ma stringente assedio, non avrebbero raggiunto risultato più eloquente. Franceschini è assertivo: «Apprezzo moltissimo il lavoro di Conte e per noi non esistono altro premier o altra maggioranza in questa legislatura».

Unica pecca è che detta maggioranza si presenta poi alle regionali divisa: «Un controsenso politico». Anche il pentastellato vede «solo Conte come premier» e ritiene che «non sia lui il pezzo che non sta funzionando». Solo un appunto presidente, quell’esposizione a favore dell’unità della coalizione poteva evitarsela: «Credo che debba confrontarsi con e nel Movimento, non a mezzo stampa». Tanto meno «con alchimie da laboratorio».

GIÀ IL FATTO CHE NEL PD, a pochi giorni dall’incontro tra Conte e il segretario Nicola Zingaretti, ci sia chi sente la necessità di difendere il premier dagli attacchi e che tra i 5S, movimento che ha indicato il succitato premier, qualcuno avverta il bisogno di confermare la fiducia al premier dice molto. Significa che quegli attacchi nel Pd non si sono affatto stemperati e che nel M5S quella fiducia è ridotta all’osso.

I PARERI DIAMETRALMENTE opposti sulle regionali e sulla posizione assunta da Conte chiariscono ulteriormente la situazione reale. Di Conte nessuno può in questo momento fare a meno, ma i fucili, dall’una e dall’altra parte, sono sempre puntati con il sospetto comune a entrambi che il capo del governo giochi di sponda con l’altro partito. Il dubbio che Conte brighi di nascosto con «gli altri» cova sotto pelle sia nel Pd che nel M5S da un pezzo. Esploderà al momento di decidere sul Mes: entro la settimana prossima se non si troverà un trucco per rinviare la scelta, altrimenti in settembre. Il Pd è furioso perché accusa Conte di spalleggiare i 5S sul no al prestito.

I pentastellati in compenso non sono per nulla soddisfatti. Diffidenti, ipotizzano che il capo del governo allunghi il brodo per poi costringerli ad accettare il maledetto prestito. Insomma, anche da quelle parti l’accusa è quella di fare fronte comune con gli alleati/avversari.

SU UN SECONDO PUNTO le critiche indirizzate, tra un complimento di circostanza e l’altro, al premier sono praticamente identiche in tutti i partiti della maggioranza: la centralizzazione delle decisioni, che era iniziata in realtà già prima della pandemia ma procede a passo di carica dai giorni del Covid dilagante e non ha affatto rallentato con la fine del contagio di massa.

Il decreto Semplificazioni è solo l’ultimo capitolo, per ora, di una lunga lista di lamentazioni. Il caso, però, è particolarmente clamoroso: su un dl di simile importanza Conte si è mosso quasi sino alla fine senza consultare nessuno, lavorando solo con i suoi collaboratori. Nei vertici della settimana scorsa lo scontro non è stato, come d’abitudine, tra un partito della maggioranza e l’altro ma fra tutta la maggioranza da un lato e un Conte deciso a fare di testa propria sui capitoli chiave dall’altro.

Sul terzo elemento critico, invece, per ora le posizioni divergono. La principale critica rivolta dal Nazareno a palazzo Chigi resta infatti quella di non concludere niente. I problemi aperti restano «in via di definizione» a tempo indeterminato, più o meno in eterno. Ancora ieri, a intervista di Franceschini ancora fresca di stampa, nel Pd fioccavano frecciate contro l’idea di aprire un tavolo sul fisco senza aver chiuso nessun dossier: «Benissimo aprire un dossier del genere se prima se ne è chiuso qualche altro. In questo modo invece si continuano ad aprire nuovi fronti per mascherare l’incapacità di chiudere quelli già aperti».

MALUMORI COMPRENSIBILI, fondati, spesso giustificati. Ma fino a un certo punto. La centralità che Conte ha assunto e l’egemonia della sua tattica basata sull’eterno rinvio sono diretta conseguenza delle divisioni della maggioranza e della sua incapacità di trasformarsi in una vera coalizione. I rischi che oggi i «giallorossi» correranno al Senato sulla proroga delle missioni non sono un caso sfortunato ma la norma. In un quadro del genere, con una maggioranza ridotta ai minimi termini e puntualmente divisa su tutto, è inevitabile che l’unico elemento di unità, sia pur coatta e subìta con crescente disagio, sia non il programma della inesistente coalizione ma la semplice persona del presidente del Consiglio.