Il Palais si svuota, le strade di Cannes si riempiono, i turisti del week-end che atterrano sulla Croisette in cerca di selfie con star da esibire sul profilo social hanno preso il posto degli accreditati partiti con la chiusura, l’altro ieri, del mercato dei film. Chi resta, deambulando sotto al sole aspetta: i premi domenica sera, il nuovo film di Roman Polanski, D’aprés une histoire vrai, oggi, messo fuori concorso e perfidamente l’ultimo giorno, quasi a nasconderlo, non sia mai che qualcuno si innervosisca della sua presenza dopo la rinuncia obbligata alla cerimonia dei Césars per quel «passato colpevole»che non passa mai. Nel finale, ma soprattutto per ragioni di programmazione – dura quasi tre ore – è arrivato alla Quinzaine des Realisatuers, A fabrica de nada, opera prima di Pedro Pinho a realizzazione collettiva – come leggiamo nei titoli di coda – che include tutti, produttori, montatrice, sceneggiatori a sottolineare quello che è anche uno dei punti di forza del cinema portoghese più giovane, capace così di opporsi alle difficoltà e a leggi pericolose che ne minacciano l’esistenza facendo fluire istanze e energie creative sempre sorprendenti.

Il titolo, La fabbrica di niente suona quasi come un paradosso se non una provocazione visto che si fa riferimento a uno stato, l’essere in fabbrica, che coincide con la produttività specie nell’era del neoliberismo assoluto che ha rimescolato diritti e doveri, spogliando i primi a favore dei secondi, al punto che una giovane operaia si può licenziare in Italia (non in India o nei paesi che sono stati utilizzati come cavie da laboratorio per affilare le nuove dinamiche liberiste pensando che tanto la questione non ci avrebbe riguardato) appena rientrata dalla maternità. Il film di Pinho inizia con due giovani che stanno facendo l’amore. Lui è Zé, un operaio, lei è la sua compagna brasiliana, Carla, che si è trasferita in Portogallo, nel paese ex-colonizzatore col figlietto che ha una faccia da indio e un’innata indole irriverente. Li interrompe il telefono di lui, sono i compagni che chiamano dalla fabbrica dove lavora, qualcuno sta portando via i macchinari.

La faccenda è subito chiara: non si tratta di furto ma di delocalizzazione, a essere sottratto sarà soltanto il loro posto di lavoro. La fabbrica che produce ascensori va male (è colpa dei cinesi recita la padrona con affettazione) verrà chiusa o spostata dove i costi di produzione sono ancora più bassi (aspettando nuovi contraccolpi), e i governi ancora più compiacenti di quelli europei nell’orchestrare sfruttamento e radicali divisioni sociali; ricchissimi e poverissimi. Arrivano i liquidatori, la responsabile delle risorse umane mette in atto la sua strategia che è seminare discordia, dividere gli operai che fanno resistenza e non vogliono andarsene, promette loro un po’ di soldi di buona uscita – «le noccioline» chiosa amaro uno dei più anziani. Ma loro non ci stanno e provano a organizzarsi: occupazione e sciopero votati a maggioranza, i sindacati sono perplessi, qualcuno ha paura della polizia, lo sciopero è ancora un diritto forse, chissà.

E se «Non è più l’operaio che utilizza i mezzi di produzione ma sono i mezzi di produzione che usano l’operaio» l’obiettivo è quello di riappropriarsene oggi, nel presente di crisi, ambiguo, di coscienze fragili, di mancanza di allenamento perdita alla solidarietà. Allo stesso modo il regista e il suo gruppo si interrogano su come raccontare il presente di crisi (in mezzo a una tendenza che pretende di dire l’ultima parola sul mondo), e soprattutto il lavoro, la fabbrica, l’origine del cinema già come messinscena – le vedute Lumiére con l’uscita degli operai dal lavoro in abiti di festa.La prima cosa è spostare il punto di osservazione, dunque non un film «sul» lavoro ma sull’ozio come passaggio necessario nella conquista di una diversa consapevolezza, non un film sulla crisi, con la pretesa di rappresentarla, ma sulla vita quotidiana che questa crisi contiene, in diverse forme e sfumature, sui momenti di felicità che pure ci sono, sui piccoli scarti improvvisi, sulla parola e la teoria della crisi e sulla sua esperienza. E anche sul disorientamento della sinistra europea, sulla fine della classe operaia e sulla sua possibile reinvenzione. Conoscere la fabbrica permette agli operai di solidarizzare, di avere accesso a luoghi prima interdetti al di fuori della loro specificità con una indipendenza che nonostante le difficoltà economiche e i dubbi cresce nei giorni.

Parallelamente seguiamo la loro vita fuori, in particolare quella di Ze che è un po’ il protagonista, per il quale la crisi economica è anche sentimentale e di posizione nel mondo. Lo seguiamo nei suoi giri di notte, quando suona col gruppo, nelle passeggiate col bimbo della compagna. Dal padre, vecchio rivoluzionario del 25 aprile contro la dittatura di Salazar che dissotterra le casse di mitragliette perché è ora di ribellarsi, di prendere di nuovo le armi in mano.

Nella fabbrica arriva anche un regista, vuole filmare l’occupazione, lo interpreta Daniele Incalcaterra, pienamente a suo agio in un personaggio che ricorda un po’ quello del suo film El Impenetrable, e che rimanda però a un altro suo film, Fasinpat, girato in Argentina (insieme a Fausta Quattrini) agli inizi degli anni Duemila. Era la storia di una fabbrica senza padrone, che gli operai occupano e decidono di autogestire fino a divenirne, dopo molte lotte, i proprietari.

È lui, il regista, a dare voce al racconto di ciascuno, a vite di lavoro sin da piccoli, i sogni messi da parte, la preoccupazione per i figli, per come arrivare alla fine del mese. Tra digressioni, parole e carezze, musica e fraseggi punk Pinho sperimenta un cinema vitale, energico, vero. Spudorato nella sua libertà.