In francese détroit significa «strettoia». Un avventuriero francese, monsieur de Cadillac, scelse quel nome per un insediamento posto alla confluenza fra un fiume e un grande lago che aveva contribuito a fondare. Perdendo l’accento sarebbe diventata Detroit, la città dell’auto, del fordismo, della massiccia migrazione dal Sud di neri attratti dalle opportunità di lavoro offerte dalla grande industria. Ma Detroit non ha significato solo catene di montaggio. Citando un non memorabile pezzo dei Kiss, Detroit è anche city rock, per il meglio e per il peggio, si potrebbe aggiungere: MC5 e Iggy and the Stooges, ma anche il blue collar rock di Bob Seger fino agli abissi del metal repubblicano dell’esecrabile Ted Nugent. Motortown, contratto in Motown, ci riporta poi all’etichetta black del miglior soul e R’n’B. Poi negli anni Ottanta sarebbe venuta la «Techno Detroit».

Al di là del fatto musicale, Detroit si presenta come un punto di snodo fondamentale dell’esperienza afroamericana: luogo di sradicamento e creazione di nuove appartenenze, di deterritorializzazione e riterritorializzazione, di integrazione e conflitto. Qui nasce la Nation of Islam, con l’apparizione al fondatore, il misterioso, Wallace D. Farm, di Allah in persona, qui inizia a predicare Malcolm X e Martin Luther King tiene la prima versione di «I dream», qui scoppia nel 1967 la «rivolta di luglio», per sedare la quale vengono mobilitate la guardia nazionale del Michigan e una divisione aerotrasportata. Motorcity is burning canterà John Lee Hooker. Dalle macerie fumanti della inner city l’idea di andarsene verso i paradisi middle-class dei sobborghi residenziali inizia ad essere una prospettiva seducente.

Il fallimento annunciato

We almost lost Detroit è il titolo indirettamente profetico di un pezzo di Gil Scott-Heron del 1977. Il riferimento era a un incidente nucleare, quello del reattore Fermi1, che avrebbe minacciato nel 1966 la distruzione della città. In realtà a desertificare Detroit non sarebbero state le radiazioni quanto gli effetti altrettanto possenti di dinamiche economico-sociali legate sia alle tendenze alla suburbanizzazione tipiche delle città statunitensi sia, soprattutto, al processo di ristrutturazione e delocalizzazione scatenatosi a partire dalla fine degli anni Settanta. Mentre chiunque disponga di un reddito sufficiente, soprattutto bianchi, si trasferisce nei sobborghi residenziali e le grandi fabbriche chiudono l’inner city si svuota. Calando il reddito dei residenti, l’infernale meccanismo del localismo fiscale contribuisce a definanziare trasporti, scuole e ogni tipo di servizio sociale, incrementando l’incentivo ad andarsene.

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Nel 2009 poi la municipalità, sommersa dai debiti, dichiara fallimento. E così Detroit da Motortown si trasformerà in ghost town o murder town (in concorrenza con Baltimore, non a caso scena del giustamente celebrato «The Wire»), epifania estrema delle dinamiche tipiche della Rust Belt, una fascia di città del Midwest in cui la ruggine appare come l’attestazione residuale delle passate glorie industriali e un monito circa una rinascita sempre rimandata.
Una superficie equivalente a quella di san Francisco, Boston e Manhattan messe insieme per soli 700 mila abitanti: è in questo spazio urbanizzato che sembra contraddire i dettami territoriali tipici dell’urbano che Francesca Berardi e l’artista Antonio Rovaldi ambientano il loro detour, anche in questo caso senza accento, alla caccia di storie e immagini. Il risultato è un libro, dal titolo Detour in Detroit (Humboldt Books, pp. 254 euro 23), che assume la forma di una deriva geografica punteggiata e continuamente riorientata dagli incontri con intercessori le cui narrazioni esorcizzano la spettralità del presente riannodando i fili con il passato o rivelando punti di vista insospettati su che cosa si muove in città. Si inizia con Leni Sinclair, una giovane proveniente dalla Germania Est che giunta negli Stati Uniti nel 1959 incontra il jazz, il rock e la fotografia. Ma anche un uomo, John Sinclair, che avrebbe sposato e di cui avrebbe conservato il cognome anche dopo il divorzio. Insieme contribuirono in maniera decisiva a fondare le White Panthers, rispondendo a una sollecitazione di Huey Newton, ed ebbero l’intuizione geniale di coinvolgere una garage band, gli MC5 di Wayne Kramer e Fred «sonic» Smith», al fine di portare il messaggio di rivolta presso i giovani bianchi.

John Sinclair da anni vive in Olanda, Leni è rimasta a Detroit, in una casa sommersa dalle fotografie da lei scattate, rigorosamente senza flash, ai grandi del jazz e del rock degli anni Sessanta e Settanta, e auspica una rinascita della città come nuova Amsterdam, confidando ancora una volta sull’erba come ingrediente essenziale se non per la rivoluzione, come ai tempi del movement, almeno per una forma di sviluppo economico della città i cui frutti possano ricadere anche sui gruppi subalterni.

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Un analogo ottimismo viene espresso da una militante quasi centenaria, Grace Lee Boggs, fondatrice con il marito James, C.L.R. James e Martin Glabermann di una significativa esperienza del marxismo americano degli anni Cinquanta e Sessanta, il Correspondence Publishing Commitee. A suo avviso il disastro della città industriale creerebbe le premesse per una rivoluzione comunitaria basata sul «lavorare meno e consumare meno», su un cambiamento degli stili di vita basata sul «Do-it-yourself», il mutualismo e l’autoproduzione (lungo una gamma che va dagli orti urbani alle stampanti 3D). Più realista, invece, appare invece la posizione di Yousef Shakur, ex membro di una gang divenuto poi organizzatore di comunità, secondo cui, al di là di ogni illusoria idea di rinascita, quello di cui Detroit necessità è lo sviluppo di un forte movimento sociale.

Uno degli effetti più eclatanti dello svuotamento di Detroit è costituito dai cosiddetti «deserti alimentari». In ampie zone della città, dove con la popolazione si rarefaceva la capacità di spesa, i negozi hanno iniziato a chiudere. E così, il distributore di benzina si presenta come l’unico luogo dove è possibile approvvigionarsi di cibo. Allo stesso tempo, però, gli enormi vuoti che si creavano nello spazio urbano hanno iniziato a essere coltivati. Tra iniziative dal basso e supporto di Ong, Detroit è così diventata una delle capitali mondiali dell’urban farming.

In gioco sono questioni fondamentali, che oltre all’approvvigionamento chiamano in causa il reddito, l’autoconsumo ma anche produzione per il mercato, l’empowerment delle comunità vicinali, la ridefinizione del rapporto con il cibo. Ma la linea della razza emerge anche qui. Come mostrano diverse voci raccolte da Berardi, nel tempo si è creata una vera e propria «burocrazia» dell’agricoltura urbana egemonizzata da bianchi usciti dall’università, senza dubbio ben intenzionati ma la cui azione non manca di suscitare nelle comunità nere l’impressione sgradevole del paternalismo e dell’imposizione dall’alto di modelli di consumo e comportamento.

Desideri di riappropriazione

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In un libro di qualche anno fa, tradotto in Italia da il Mulino con il discutibile titolo da guida turistica L’altra New York, Sharon Zukin ricostruiva i meccanismi che avevano condotto alla costruzione dell’immagine del Lower East Side, di Harlem e di Williamsbourg-Brooklyn come luoghi «urbani autentici» e quindi passibili di valorizzazione immobiliare. La possibilità di accedere a immobili a basso costo favorisce l’insediamento di una popolazione «bizzarra» e di gallerie d’arte, locali alternativi, botteghe artigiane, creando progressivamente un’ecologia gradita alla «creative class», disposta a pagare cifre crescenti per dimorare in una zona non anonima e stimolante. Il conseguente aumento dei valori immobiliari, tuttavia, finisce per colpire in primo luogo quegli stessi pionieri che con il loro stile di vita avevano dissodato quelle parti di città costringendoli a trasferirsi altrove. Anche Detroit, con i suoi vuoti di valore, non sfugge agli appetiti dei gentrificatori. Lo fanno chiaramente capire le parole di Bruce Schwartz, numero due della Quicken Loans, una sorta di The Circle dei mutui, per citare il recente romanzo di Dave Eggers. Diviene allora facile comprendere il carattere ambivalente e aperto a esiti opposti di quelle pratiche di reinvenzione e riappropriazione dello spazio urbano che suscitano l’entusiasmo di una vecchia militante come Grace Lee Boggs.

Gli orti urbani, la ridefinizione della mobilità a partire dalla bicicletta (nel cuore della città dell’auto per eccellenza), lo sviluppo di attività economiche improntate alla cooperazione, il welfare dal basso, la diffusione di spazi controculturali se da una parte contribuiscono a ridisegnare le forme di una cittadinanza attiva e rivendicativa dall’altra svolgono una funzione decisiva nel creare quel valore aggiunto di cui il real estate è sempre pronto ad appropriarsi. Si possono nutrire dubbi sul successo nell’ex Motorcity della ricetta che altrove ha dato grandi soddisfazioni alla speculazione immobiliare e al capitale finanziario. E tuttavia il tentativo è in corso. Per contrastarlo, con ogni evidenza, il valore in sé delle pratiche e degli stili di vita non basta.