La cittadinanza virale è fondata sui tamponi, sulla patente dell’immunità verificata da test sierologici e sull’applicazione scaricata sugli smartphone per controllare via bluetooth chi ha contratto il virus Covid 19. Attraverso la geolocalizzazione, la somministrazione di test, la diagnostica precoce i cittadini saranno classificati in base a un credito virale.

Chi vorrà essere sottoposto alla verifica della salute riceverà un passaporto che assicura la libertà di movimento revocabile in base all’andamento dei contagi. Chi non si sottoporrà ai controlli potrebbe essere sanzionato socialmente.

Le relazioni tenderanno a essere integrate in un dispositivo flessibile considerato necessario per certificare gli stati di vulnerabilità nelle quarantene intermittenti o totali.

Sono in molti a intravedere i rischi di una sorveglianza realizzata da un’alleanza tra il capitalismo delle piattaforme digitali, che ha il monopolio dei dati, i servizi di intelligence e polizia e la prevenzione sanitaria. Per impedire il ritorno di una pandemia le autorità europee cercheranno di garantire l’equilibrio tra libertà e sicurezza nella privacy.

Sarà difficile mantenerlo perché la sicurezza divora le libertà per proteggere da un pericolo subdolo che passa attraverso il respiro e il contatto tra gli esseri umani e il loro rapporto con il mondo animale.

In attesa di un vaccino la cittadinanza virale potrà essere accettata perché ciascuno ha diritto a una cura e ha il dovere di proteggere gli altri. Le disfunzioni prodotte dalla mancanza di protocolli sanitari consolidati o dalle speculazioni sulle «app» per il tracciamento e il distanziamento sociale spingeranno a pretendere la realizzazione di tecnologie e prassi efficienti, mentre i test, lo screening, la profilazione digitale diventeranno una seconda pelle.
Non va trascurata la possibilità che il nuovo dispositivo sarà usato nella prossima emergenza, anche di tipologia diversa. La sperimentazione in atto adatterà l’esistenza a eventi considerati minacce, non eliminerà lo sfruttamento degli esseri umani e della natura. Purtroppo continueremo a vivere nel capitalismo dei disastri.

La prevenzione della morbilità, non solo a livello di epidemie, è un’ossessione dal medioevo. La profilassi è un elemento della cittadinanza ed è considerata anche in termini di costi economici. Oggi lo è ancora di più, viste le enormi conseguenze del lockdown della produzione e il cinico dibattito sulla «riapertura» in nome del ritorno alla competizione. In questa cornice la cittadinanza virale perfeziona i meccanismi sottili elaborati tra il XIX e il XX secolo dalle assicurazioni, dal risparmio individuale e collettivo, dalla medicina personalizzata. Più che un’immunità totale dal contagio, la sua istituzione potrebbe assicurare il mantenimento dell’ordine attraverso il controllo a distanza in una società che vive in uno stato di emergenza continuo.

Questo stato non risponde a un potere assoluto che decide su un’«eccezione permanente», né a un «grande fratello» digitale, ma alla necessità di includere e non respingere l’assolutamente estraneo, confliggendo sulle prassi del governo di sé e degli altri. Questa dimensione etico-politica può emergere nella cittadinanza virale ed è incomprensibile per il soluzionismo tecnologico, le teosofie della fine del mondo o le teorie sull’eccezionalismo. In questa dimensione si afferma l’alternativa in cui vivremo: da un lato, possiamo essere incastrati in un potere autoritario; dall’altro, possiamo individuare una resistenza e praticare una solidarietà potente.

L’imperativo di salute pubblica che oggi ci confina in un panico freddo potrebbe essere rovesciato da un’intelligente passione comune che nutre l’attitudine alla cura reciproca; alla cooperazione, e non all’obbedienza; all’autonomia collettiva, e non alla delazione individuale.

Imparare ad abitare queste contraddizioni significa prepararsi anche alla depressione socio-economica indotta dalle politiche contro la diffusione del virus. La crisi non sarà «simmetrica», come si sostiene, ma colpirà violentemente i sempre più numerosi precari e vulnerabili. Molti vivevano l’emergenza «prima». Saranno ancora di più a viverla peggio «dopo».