Henri Lefebvre è stato un filosofo anomalo nel panorama francese degli anni Sessanta e Settanta. Polemico con Louis Althusser, insensibile all’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre, curioso ma diffidente verso il percorso di Michel Foucault, diffidente verso Nicos Poulantzasis e Charles Bettelheim ha seguito un percorso di ricerca segnato da tappe anticipatrici di quanto sostenuto e affermato dai movimenti sociali a lui successivi.
È stato così, ad esempio, per la Critica della vita quotidiana, dove quest’ultima è stata letta da Lefebvre come lo spazio sia della resistenza che della manipolazione da parte del potere costituito. Come si mangia, si abita, si ama, si studia, si crescono i figli sono attività che hanno a fare sia con il consolidamento dei rapporti sociali di produzione, attraverso l’azione dello Stato, che, all’opposto, con la critica dell’economia politica del quotidiano. Sono argomenti fin troppo seri per essere lasciati ai sociologi o ai guardiani dell’anima.

SULL’OPERA di Henri Lefebvre è però ben presto calato il silenzio. Solo recentemente, e dall’altra parte dell’Oceano, c’è stata una rinnovata attenzione alle sue tesi, grazie alla ricezione che ne ha fatto David Harvey quando ha indicato nel «diritto alla città» del filosofo francese non solo una parola d’ordine politica, ma un passepartout per cogliere le trasformazioni del capitalismo nella seconda parte del Novecento e dell’intero «ciclo neoliberista» giunto, secondo Harvey, alla fase discendente della sua secolare parabola. Ha fatto bene dunque la casa editrice ombre corte a pubblicare il libro di Lefebvre sul Diritto alla città e questo sullo Spazio e politica (pp. 141, euro 14), presentato come seconda parte e naturale evoluzione del primo. Per il filosofo francese, la città è interpretata non solo come il luogo dove la produzione e il consumo delle merci sono organizzati e gestiti. Il «pluralismo» degli stili di vita è – qui la continuità con l’elaborazione di Georg Simmel e Walter Benjamin è evidente – immanente allo sviluppo dello spazio urbano.

FIN QUI NULLA DI INEDITO, specialmente quando viene evocato il fatto che spesso i luoghi della produzione delle merci vengono scelti indipendentemente dalla vicinanza di una città. Città e produzione, infatti, non sempre coincidono e talvolta sono in tensione conflittuale tra loro, anche se i siti produttivi hanno bisogno di una città vicina o ne favoriscono la sviluppo, come attesta la storia urbana di gran parte del Novecento mondiale o, recentemente, la crescita di città quasi dal nulla nella Cina «fabbrica del mondo».
L’innovazione introdotta da Lefebvre alla fine degli anni Sessanta riguarda infatti la produzione dello spazio, una attività «produttiva» inedita rispetto al passato. Lo spazio urbano viene plasmato in base a una logica interna alla espansione capitalistica. In una scansione da forte sapore evoluzionista delle fasi dello sviluppo capitalistico, quella che inizia nella seconda parte del Novecento è per Lefebvre è una società urbana che si differenza dall’industrialismo.
In altri termini, la produzione dello spazio implica necessariamente la codifica urbanistica sia delle divisioni in classe delle società, tracciando linee di confine tra le classi – in Francia le banlieue sono i luoghi proletari per eccellenza, stabilendo gerarchie e enclave abitative secondo le linee della razza e del reddito percepito – che si rispecchiano nelle rappresentazioni iconografiche consentite dal design urbano e dalle opere di abbellimento delle città, del potere vigente.
È in questa produzione dello spazio urbano che vengono modellati i rapporti tra produzione, consumo, rendita e finanza, legittimando un vero e proprio uso capitalistico del territorio, che interviene nei periodi di crisi, di sovrapproduzione e contrazione dei profitti.

IN UNA FRASE dalle molteplici implicazioni, Lefebvre scrive che «il capitalismo si è conservato estendendosi allo spazio intero»: con questo indicando che la produzione dello spazio è fondamentale non solo per i rapporti di potere politici, ma per quelli sociali e di produzione en general. Inoltre, modifica la composizione della classe operaia, rendendo produttivi lavori da sempre ritenuti improduttivi, come quelli dei servizi, di assistenza alla persona, dei trasporti. Ed è per questo che Lefebvre preferisce parlare di proletariato e non di classe operaia, evidenziando la eterogeneità delle figure lavorative nella società urbana.

Gran parte della riflessione contenuta in Spazio e politica è stata condivisa da molti economisti, sociologi, urbanisti e filosofi successivi a Lefebvre, anche se con accenti e diversità evidenti. Mike Davis, Saskia Sassen, Neil Brenner, Manuel Castells, lo stesso David Harvey possono mettere l’accento su un aspetto piuttosto che un altro, privilegiare una dimensione della società urbana invece che un’altra, ma in qualche misura sono debitori nei confronti di Lefebvre.
La società urbana ha dunque la città come perno, collante, perché è in quello spazio che possono essere gestiti i flussi di capitale, merci, uomini e donne. E se nella fase industriale, produzione, consumo e distribuzione erano momenti distinti, nella società urbana sono strettamente connessi l’uno con l’altro in una frenetica e continua ridefinizione delle nuove geografie sociali del lavoro vivo.

CON LUNGIMIRANZA, Lefebvre scrive di giacimenti della forza-lavoro che sono prodotti per rendere funzionale l’uso capitalistico del territorio, fattore indispensabile per garantire stabilità alla società urbana.
Al di là di una visione naturalistica del lavoro presente in questo saggio, l’analisi di Lefebvre è importante perché indica nella produzione dello spazio sia un fattore economico che politico. E se per il primo aspetto occorre ripensare la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo, tra produzione, consumo e finanza, per la dimensione politica occorre constatare che l’eterogeneità degli stili di vita non solo è tollerata ma incentivatao da parte delle istituzioni della governance metropolitana.

IL FILOSOFO TEDESCO Siegfried Kracauer, scrivendo delle metropoli, indicava nell’erranza del tempo libero il momento di sottrazione al controllo del proletariato, esemplificato dalle segretarie che vagavano nella città per vedere le vetrine per poi concludere il pomeriggio di libertà in qualche sala cinematografica sognando una vita senza le stigmate del lavoro salariato.
Più realisticamente, questa alternanza tra controllo e resistenza è il nodo che i guardiani dell’anima non riescono a recidere. Perché il diritto alla città è momento di resistenza. E di costruzione di una società certo urbana, ma progettata per essere spazio di libertà.