Prati curati, mogliettine sorridenti, maritini e padri modello con la camicia e la cravatta sempre impeccabili: benvenuti a Suburbicon dove i sogni dell’America middle class sembrano diventati realtà: tutti sorridono, sono felici, si sentono protetti, perché come ammiccano i depliant dei venditori in stile Rockwell questo è un angolo di Paradiso. Tra i fortunati ci sono anche Gardner Lodge (Matt Damon), la moglie Rose che un incidente d’auto (guidava lui) ha lasciato paralitica e arrabbiata col mondo (specialmente col marito), il loro sveglio bimbetto Nicky, e la sorella gemella di Rose, Margaret – entrambe impersonate da una illuminata Julianne Moore versione biondo e bruno. Sembrano come gli altri, nonostante i malumori di Rose e la strana introversione del piccolo Nicky anche loro sorridono in technicolor rosato .

Un giorno però accade qualcosa di impensabile che rompe l’incanto, a Suburbicon arrivano i Meyers, padre, madre e figlio african american e questo basta a far cadere la facciata di ipocrita gentilezza dei suoi abitanti rivelandone la grettezza e soprattutto il feroce razzismo. Non li vogliono, sono un pericolo: «L’integrazione sarà possibile solo quando i negri impareranno a comportarsi bene» urlano imbestialiti. Intanto la vita dei Lodge viene sconvolta da una rapina (e pure se non c’entrano la colpa è ovviamente dei Meyers portatori di corruzione) in cui Rose rimane uccisa…

Anche se è ambientato alla fine degli anni Cinquanta, Suburbicon (in concorso all’ultima Mostra di Venezia) ha come riferimento più che intenzionale l’America di Trump. George Clooney – stavolta solo alla regia – ha lavorato su una vecchia sceneggiatura dei fratelli Coen unendovi nella riscrittura – di nuovo con Grant Heslov – un fatto di cronaca accaduto in Pennsylvania, in quegli stessi anni, dove una cittadina all’arrivo di una famiglia african american, i Meyers appunto, aveva organizzato un assalto alla casa sventolando bandiere confederate.

L’incontro tra l’umorismo di paradossi dei due fratelli e la necessità di presente di Clooney – più molti riferimenti soprattutto all’immaginario di quegli anni, da Il buio oltre la siepe a La morte corre sul fiume ma anche Il villaggio dei dannati – diviene la lente che gli permette di trasformare il vintage d’epoca in attualità. Gli onesti cittadini di Suburbicon sono troppo impegnati nella loro guerra contro i nuovi arrivati verso i quali mettono in atto ogni sorta di violenza per accorgersi del massacro tutto wasp – nella cui meccanica si manifesta il tocco degli autori di Fargo – che si consuma nella villetta di una famiglia uguale alle loro per soldi e per sbarazzarsi «degli ostacoli che impediscono di vivere» come pontifica Lodge rivendicando il suo ruolo di padre a Nick – ragazzino stupendo e bravissimo Noah Jupe.

Che è il punto di vista narrativo e la figura a cui viene affidata la possibilità di un futuro – un piccolo George Clooney? Ai suoi occhi attenti non sfuggono infatti dettagli preziosi, e a differenza degli adulti sa rimanere vigile nonostante il dolore, non si fa narcotizzare né si spaventa davanti ai trucchi della zia, ruolo in cui Julianne Moore si scatena trasformando Vertigo nella fiaba soap della matrigna cattiva, o del padre che dietro agli occhiali da «bravo americano« nasconde pensieri e fantasie contro ogni sua esibita morale.

Solitario – non sei integrato gli ripete il padre che ha deciso di mandarlo in un accademia militare – Nick diventa amico del ragazzino african american, ci gioca a baseball e la sera i due comunicano oltre gli steccati che gli altri hanno costruito tutto intorno. E soprattutto sa resistere al terrore più grande per un bambino – l’archetipo di ogni horror – la sicurezza della casa violata, la figura protettiva del genitore che si rivela una minaccia, mantenendo l’apertura verso quello che sarà (forse) qualcosa di nuovo.
Perché il pericolo, a differenza di quanto ci ripetono, non viene da fuori ma ce lo abbiamo dentro, nutrito dai sorrisi dei paternalismi che vogliono eliminare tutto quanto non si accorda alla loro visione del mondo. Peccato per il doppiaggio in italiano, che come al solito penalizza la resa complessiva del film.