Qualche settimana fa nel corso di un incontro del progetto Make Roma, al Teatro India, Valerio Mattioli, l’autore di uno dei più bei libri su Roma degli ultimi anni, Remoria, evocava il momento fondativo della città che si vuole eterna.

Romolo traccia un solco e enuncia: ciò che è dentro è urbs; ciò che fuori va eliminato, anche se si chiama Remo ed è tuo fratello. Roma in fondo nasce come confine, la città come dispositivo di esclusione. E da 2700 anni replica questo dispositivo, e l’ha disseminato sul pianeta.

In questa affannosissima corsa elettorale per le elezioni del 2021, vale la pena capire quanto siano fuorvianti molte delle retoriche del dibattito pubblico, e quanto invece concepire la politica romana secondo una polarità dentro/fuori ci possa aiutare a immaginare una città diversa.

È per esempio molto chiaro come i posizionamenti – spesso gli sgomitamenti, le dichiarazioni, i sondaggi da social – sembrino contare più dei programmi, delle idee, e anche delle riflessioni dei partiti. Partiamo proprio dai partiti: il Pd e il Movimento 5Stelle sono delle comunità molto conflittuali al loro interno, quelli romani ancora di più: pieni di fuochi amici anche dichiarati, negli ultimi anni non sono stati quasi mai luoghi di elaborazione di cultura politica, né di critica allo status quo in cui vive la capitale; la massima proposta che viene fuori è qualche cenno di miglioramento della condizione urbana, ed è questa la ragione per cui l’egemonia dei tecnici, dei city manager sembra avere presa. Inoltre pesa ancora su tutto la cacciata di Ignazio Marino e la delusione per Virginia Raggi. Il primo non è riuscito a imporre la sua classe dirigente, la seconda non ne è riuscita a proporne una.

Veniamo alle idee, che sono pochissime e confuse, proprio perché sono poche e inascoltate le analisi della città. Il disco rotto del dibattito politico si ferma spesso sulla polarità decoro/degrado, o al massimo su quella centro/periferia. Decoro, degrado, centro, periferia, sono parole che non indicano ormai nulla se non una percezione di massima: è come avvertire che le estati sono sempre più calde senza porsi il problema del cambiamento climatico. Il mondo diventa più torrido, e Roma sta diventando povera, si sta disurbanizzando: periferia e centro, quartieri residenziali e aree abbandonate, si alternano in un unico sprawl che non interessa più solo la cintura urbana.

Nella pandemia questo processo si è estremizzato: la monocultura turistica da una parte e quartieri dormitorio dall’altra non fanno una città. A Roma le ztl, le enclavi, le gated communities, le strisce blu, le zone servite dal car sharing o i monopattini, quelle dove arriva la metro, quelle con i negozi di prossimità, quelle con la raccolta rifiuti che non è al collasso, hanno creato una Roma1 che è abitata e vissuta dal popolo di dentro, le famiglie che entrano nelle graduatorie degli asili pubblici buoni, che possono non restare nel traffico quattro ore al giorno, ragazzi che non si devono svegliare alle cinque e mezza per andare a scuola. Come in La città e la città di China Mieville, compresente ma contrapposta c’è la Roma2 abitata da chi è invece escluso, un popolo di fuori, senza protezioni sociali, senza una piazza, senza centri culturali, senza accesso alle università, senza punti di riferimento del quartiere, senza tutela da parte delle istituzioni, senza possibilità di emancipazione.

Questa divisione non riguarda solo Roma, e per questo è interessante guardare ciò che accade nel terreno di scontro capitolino come lente per osservare la politica non solo nazionale. Le distinzioni tra destra e sinistra, ma anche tra alto e basso, tra competenti e populisti, sono inefficaci a distinguere i conflitti in una società sempre più urbana. È piuttosto l’avere o il non avere una cittadinanza piena a segnalare la faglia cruciale tra le tensioni sociali. La lotta di classe si svolge sempre lungo i confini urbani: la battaglia per il sindaco, per governare Roma può muoversi quindi soltanto, cercando non di mitigare le differenze tra centro e periferie, di ricucire il tessuto urbano, ma di rompere questi recinti, per una civiltà in cui ci si senta e si sia tutti dentro e la città un dispositivo di inclusione.