Chi vincerà? Il gioco del totoLeone è cominciato già da qualche giorno sul Lido che si svuota a poco a poco, gli americani sono già partiti destinazione Toronto, e molti altri li seguiranno visto che diversi film presentati in anteprima a Venezia sono anche nel cartellone della rassegna canadese.
Le cifre parlano di un aumento del pubblico, e infatti le sale erano sempre piene, anche la Sala Grande degli Orizzonti, e naturalmente quelle dei «classici». Ma le «retrospettive» sembrano essere diventate un richiamo in tutti i festival, chissà se perché ormai i luoghi per vedere il cinema del passato lontano o recente sono sempre meno, e il compito di farli conoscere alle generazioni più giovani è quello dei circuiti festivalieri – e a proposito: il gadget da «rubare» è il poster della prossima Viennale, che annuncia la retrospettiva dedicata a Jerry Lewis …

Che Mostra è stata questa dei settant’anni, la seconda diretta da Alberto Barbera? La prima impressione è che ci abbia raccontato una necessità diffusa tra i cineasti del mondo, quella cioè di una riflessione sul proprio mezzo, sullo statuto del cinema nell’era del digitale. Dunque: vincerà il Sacro Gra di Gianfranco Rosi, amatissimo e tra i più applauditi? O il thriller politico di Kelly Reichardt, o ancora lo «scontro» Morris Rumsfeld? Bertolucci, presidente della giuria, aveva detto che dai film voleva essere sorpreso. Ascoltandolo per due ore nel lavoro di Guadagnino e Fasano, Bertolucci on Bertolucci, commuovente dichiarazione d’amore a tre al cinema e alla sua potenza, il ragazzo ribelle dei primi film lascia posto a una differente visione delle cose, ma questo però senza perdere il piacere di scoprire ogni volta qualcosa di nuovo, Se pensiamo a un film come Io e te, alla sua vitalità, a quell’energia appassionante che rivela lo sguardo del regista in ogni fotogramma del film. Come se fosse lui il primo a sorprendersi di cosa sta accadendo, del piacere di quelle immagini in cui riconosciamo il tocco del suo cinema, e al tempo stesso ne scopriamo un qualcosa di nuovo. Ancora una volta un inizio.

Ecco è forse questa la «sorpresa» a cui Bertolucci aveva fatto riferimento all’inizio del festival, il nuovo per il nuovo non è interessante, sono quei movimenti impercettibili, gli scarti improvvisi eppure soffusi che spalancano qualcosa di inatteso

È un pensiero che ti viene guardando Stray Dogs il nuovo film di Tsai Ming Liang, un cineasta che proprio la Mostra di Venezia ha lanciato ai tempi di Vive l’amour. Il film, in gara, entrato subito nella lista dei Leoni possibili, c’è chi lo ha detestato e chi invece dice: dopo questo film un tavolo non sarà più un tavolo. Ma non è potere del cinema reinventare le categorie del mondo? . C’è poi una donna, lavora nel supermercato dove la bambina passa il suo tempo. È ossessionata dalla pulizia , e alla piccola lava i capelli e poi la fa stare in piedi davanti ai potenti frigoriferi del reparto alimentare. La notte la donna porta il cibo ai cani randagi, e intanto però in un’altro mondo potrebbe essere la madre dei bimbi e la moglie di quell’uomo solo.[do action=”citazione”]Nelle sue note il cineasta taiwanese ci dice che l’ispirazione della storia gli è venuta osservando per strada gli uomini-sandwich, il lavoro del protagonista, padre di due bambini coi quali vive in una baracca, la sera si lavano i denti e i piedini nel bagno pubblico, e nel letto del padre rimasto da solo la bimba mette un cavolo con la faccia dipinta da ragazza[/do]
I Cani di strada di Tsai Ming Liang, che come Miyazaki ha fatto capire che questo sarà probabilmente il suo ultimo film, ci parlano di una Taipei travolta dalla crisi economica. La ricca Taiwan arranca oggi dietro alla Cina che ha preso il dominio nel mondo, mentre quella che era diventata l’antitesi capitalista alla Cina della Lunga Marcia, oggi crolla come tutto l’occidente.

E in questa sorta di fantasmagoria appare trasognata, circoscritta in quel mondo a parte che ci racconta il regista. Stray Dogs è uno di quei film che richiede uno sguardo paziente, che ri domanda di entrarci dentro, forse più di tutti i film di Tsai Ming Liang. Realizzato ancora una volta con l’attore complice di tutti i suoi film, lavora sulla durata di ogni inquadratura, tenuta fino quasi a dissolvervi i suoi personaggi. La solitudine, la violenza delle relazioni, lo spazio urbano nella sua declinazione paradossale, quelle tracce che si ritrovano in ogni film del regista, sono anche qui. Ma stavolta tutto sembra più cupo, anche la dolcezza sospesa di quella che a tratti somiglia a una fiaba si impasta alla malinconia.

I gesti, i volti, la scala cromatica delle sue immagini sembra condurci dentro a qualcosa di doloroso, un sentimento inafferrabile eppure costante.
Ma sono le immagini la dimensione di Tsai Ming Liang, e il tempo cinematografico è quello delle sue storie. La contemporaneità della crisi, non solo economica, forse anche di un fare cinema, prendono dunque forma nel quotidiano di questa strana famiglia, nelle fantasie di un altrove e in quello spazio ristretto della loro vita. «Spero che Stray Dogs sia il mio ultimo film ma credo nel destino e io sono una sua pedina. Però non riesco a fare film in un sistema che vorrebbe limitare la mia creatività» ha detto Liang. Il suo è un cinema che mescola, riferimento per le tendenze che oggi lavorano nel crossover dilatando le immagini in altri spazi, in forme della visione anche fuori dalla sala. Negli ultimi anni il regista ha realizzato dei corti che erano al tempo stesso installazioni, forme di cinema «espandibile» secondo la modalità di fruizione.

E perciò non dovrebbe essere tanto la mutazione del cinema a preoccuparlo, visto appunto che l’ha già sperimentata e anticipata. Questo suo film ci parla di altre inquietudini, che sono proprio quel bisogno di «sorpresa». Qualcosa con cui spiazzare anche se stessi, prima del pubblico, la scintilla di una ricerca che non si compiace né si accontenta. Difficilissimo. Lui ci è riuscito.