Due anziani, un uomo e una donna, stesi fianco a fianco: si intravede appena il volto di lui, accanto hanno i sacchetti della spesa appena fatta nell’immenso Carrefour all’inizio della Rambla, diventato oramai un tempio del turismo di bocca buona cui vengono offerti trionfi di prosciutti e vino tinto da quattro soldi; in primo piano, abbandonata, la borsetta di lei, logora e linda come la proprietaria. Una ragazza si china su di loro, qualcuno li fotografa, forse un fotoreporter o uno degli innumerevoli passanti muniti di cellulare, che, scrive Juan Cruz, il vicedirettore di El Paìs, anche in questa occasione hanno esercitato, tra morti e feriti, «la solidarietà spietata» dei forsennati dell’istantanea, pronti a travasare sui social il proprio bottino.

Chiunque l’abbia scattata, la foto oggi rimbalza da un video all’altro, da una pagina all’altra, e racconta più storie di quante possa immaginarne chi la guarda. Racconta, per esempio, quella di un quartiere dove anziani come loro sono ancora una presenza civilissima, ostinata e mite, che si rifiuta di lasciare la propria casa di sempre, pur assediata dagli appartamenti turistici, da quelli dove si stipano gli studenti delle vicine facoltà universitarie, dai palazzi svuotati dagli sfratti delle banche che hanno espulso centinaia e centinaia di persone non più in grado di pagare il mutuo (case, tra l’altro, di cui sempre più spesso si impadroniscono okupas molto speciali, trafficanti che ne fanno centri di smercio, narcoappartamenti contro i quali i vicini organizzano, di strada in strada, rumorose e impotenti manifestazioni).

Appartengono, quei due vecchi barcellonesi abbattuti insieme a turisti di diciotto nazionalità diverse, a una generazione che ha conosciuto la guerra civile, la dittatura, la proibizione di parlare e scrivere in catalano se non in casa e in segreto, l’umiliazione costante e feroce inflitta dal franchismo a una città intera, a un popolo intero. Sono stati testimoni della rinascita di una città unica non solo in Spagna, ma in Europa, del suo straordinario sviluppo economico e culturale, dei suoi audaci cambiamenti urbanistici, degli affari e anche della corruzione di una borghesia legata a doppio filo a un potere locale che ora sventola insieme a ERC e CUP – in teoria, i suoi nemici storici – la bandiera del nazionalismo indipendentista; hanno visto, quei due vecchi, la prima manifestazione dell’orgullo gay sfilare nel 1977 proprio lungo quel tratto della Rambla, l’elezione della prima donna sindaco uscita dal formidabile vivaio degli attivisti cittadini, l’affermarsi di una profonda sensibilità sociale e di una gran voglia di sperimentare, e l’avvento di una speculazione locale e internazionale che ha reso Barcellona fulcro di un turismo di massa la cui presenza non è per tutti identicamente redditizia o gradita.

I due anziani con le borse della spesa li conosco senza conoscerli, so chi sono anche senza saperlo: ne incontro ogni giorno, di superstiti come loro, quando cerco inutilmente alla Boqueria il banco di frutta e verdura che ha lasciato il posto al solito prosciutto quasi fosforescente o alle inquinatissime «aguas frescas» vendute da impavidi sudacas; ci parlo, con superstiti come loro, quando mi siedo su quelle panchine a un solo posto che sono la fotografia del carattere catalano: ognuno per conto suo, ma sempre e comunque insieme, pronti ad attaccare discorso dalla propria «poltroncina» riservata. Li vedo, con i loro vecchissimi cagnetti e i carrelli della spesa, nelle strade del Raval, il cui antico nome arabo si è da tempo sovrapposto a quello di Barrio Chino, e so che ricordano i tempi in cui il quartiere, ora azzannato (ma non ancora divorato) dalla gentrificazione, era miserabile e malsano, malfamato e pieno di bordelli a poco prezzo, di locali in cui si esibivano travestiti che si facevano beffe della «ley contra vagos y maleantes» che prevedeva il carcere per quelli come loro.
I vecchi del quartiere lo sanno: il Raval, con una storia piena di violenze e di solidarietà, antica roccaforte anarchica e proletaria dove si bruciavano i conventi e si fondavano università operaie e associazioni mutuo soccorso, per secoli tenebroso e sudicio e ora pieno di botteghe e ristorantini «di tendenza», è sempre stato un quartiere di immigrati. Campagnoli catalani, andalusi, spagnoli poverissimi che venivano a cercare lavoro nella ricca «citta dei prodigi», e, in anni più recenti, latinoamericani, italiani, pachistani, cingalesi, africani di varia provenienza. E maghrebini, moltissimi, padroni di strade intere e della panchine della Rambla del Raval, aperta per i Giochi Olimpici e ora popolata di palme e pappagalli verdi.

Incastrato nel fianco di quello che un tempo era un fiume ed è poi diventato la Rambla per eccellenza (un altro nome arabo per un viale che nel XIX secolo diventò la vetrina architettonica e culturale della ricca borghesia catalana), il Raval, nelle cui viuzze i turisti hanno cercato scampo e che i poliziotti hanno perlustrato con le armi in pugno, è forse il quartiere più multiculturale di una città abitata da centinaia di migliaia di «stranieri», come i bambini di origine diversa che vedo uscire dalle scuole e giocare a pallone per strada: parlano tutti in catalano, prima ancora che in spagnolo, e, visti così, mentre si rincorrono e accompagnano l’un l’altro, inducono a respingere l’idea che chi ha spazzato la Rambla con il suo furgone in affitto sia davvero un ragazzo cresciuto qui, in una città che ha fatto dell’integrazione non solo una bandiera, ma anche un progetto realizzato quasi per intero (e che ne sarà ora di questa convivenza, di questo progetto che sembrava consolidato? In quanti si avventeranno contro di esso?).

I vecchi del quartiere lo sanno: il Raval, nonostante i turisti e i wok bar e i negozi familiari che spariscono e lo scarpinare incessante di estranei in calzoncini e infradito, è ancora un mondo parallelo, altra cosa dalla vicinissima Rambla con cui da sempre convive, e ha ancora i suoi segreti, è pieno di fantasmi. Molte delle sue ombre sono state, e a tratti sono ancora, sinistre quanto quelle dei furgoni bianchi; altre sono più sfuggenti, ma ben più amabili: Roberto Bolaño, accolto per alcuni anni da una stanzetta sordida in carrer del Tallers, là dove ora c’è un’ elegante pensione; Vázquez Montalbán, cresciuto in piazza del Pedró; Terenci e Ana Maria Moix, nati in carrer Joaquin Costa, oggi a metà tra vie alla moda e casbah; Jean Genet, che con Juan Goytisolo esplorava i bar dalla fama peggiore. La Rambla in cui sbucavano, venendo dalle strade buie del Raval, era ancora piena di fiori, di gabbie con infelicissimi canarini e di polli vivi, di tram colorati e di signore col cappellino, come nei disegni di Ricard Opisso, o di torvi ragazzi col berret come l’Onofre Bouvila di La città dei prodigi di Eduardo Mendoza.

Perché Barcellona, città- personaggio divenuta protagonista di infiniti romanzi e film, luogo a così alta densità di scrittori e case editrici che sarebbe impossibile farne un elenco, non è solo turismo e botellones, calcio e file per vedere la Pedrera. Barcellona è un libro prezioso e scritto in lingue diverse, che i suoi abitanti porteranno come sempre in salvo. E, siccome la gente del Raval è dura a morire e ne ha viste tante che ci vorrebbe una vita per raccontarle, possiamo anche sperare che i due vecchi con le borse della spesa non siano diventati una delle sue pagine strappate.