I Raumplan sono un gruppo di giovani architetti, filosofi, pensatori attivo a Milano da qualche anno, autori di profonde riflessioni sul rapporto tra lo spazio urbano, i meccanismi di produzione di design e architettura, e le nuove forme del capitalismo. Per il Salone del Mobile (17-22 aprile) curano una mostra a Base Milano che esplora l’ambivalente significato di City making, una locuzione molto alla moda che viene utilizzata per indicare la fine della vecchia urbanistica «dall’alto», burocratica, in favore di un «fare città» che sarebbe leggero, molecolare, armonico, composizione delle mille istanze provenienti «dal basso» (associazioni, comitati, piccolo commercio, attività culturali) e da investimenti privati.

Le indagini fotografiche di Louis De Belle sui bikers di Glovo o Foodora, o quelle di Delfino Sisto Legnani sui device più intrusivi nello spazio domestico, o lo studio sull’omologazione degli interni milanesi indotto da Airbnb di Calibro, Donato Ricci e Obelo mostrano la forza dei cambiamenti strutturali impressi alla città da entità che non sono né piccole né locali, ma che agiscono in modo massiccio, radicale e spesso neppure decifrabile.

Vi hanno commissionato una mostra sul City Making e invece voi avete preferito lavorare su «Trouble Making»… Come mai?
Il city-making è una specie di sostituto «smart» dell’urbanistica. Nessuna direzione scientifica o politica, nessuna gerarchia, nessuna mediazione: siamo tutti city-makers, consapevoli o meno. In parte è vero: sicuramente c’è stata una moltiplicazione dei fattori e degli attori che «fanno città». Ovviamente quello che manca in questo quadro teorico conciliante, in cui tutti possono «partecipare», è il conflitto. I troubles e i rapporti di forza però sono scomparsi solo dai discorsi, non dalla realtà. La disciplina urbanistica, comunque la si intendesse, aveva alla sua base l’idea che la costruzione della città dovesse essere il frutto di una mediazione giusta – o almeno legittima – tra le forze in causa, operata dalla rappresentanza politica e dai professionisti competenti. Tolta la mediazione del conflitto, resta solo il conflitto senza mediazione. Da qui la nostra provocazione: chi, davvero, fa la città? È verosimile che i «piccoli» city-makers possano occuparsi di qualcosa di più delle briciole lasciate dai «grandi»? Agli artisti invitati abbiamo chiesto chi fossero, per loro, i «grandi» attori e fattori del cambiamento metropolitano e di sondare come questi influenzino la realtà urbana e domestica.

Il platform capitalism è al centro delle vostre ricerche da alcuni anni. L’anno scorso, per la rassegna «Capitalism is Over» vi siete intrufolati nei magazzini Amazon, quest’anno avete guardato alle modificazioni diffuse sul territorio, ai lavoratori di Foodora e di Uber, all’omologazione degli interni indotta da Airbnb. Uno slittamento dello sguardo che descrive un modello spaziale fortemente analogo…
Non è del tutto così. Io credo che i temi del platform capitalism, della sharing economy e del food delivery siano collegati ma non del tutto sovrapponibili; ci sono differenze notevoli, soprattutto per quanto riguarda il rapporto di queste aziende con la merce. Il modello spaziale e logistico di Amazon è abbastanza diverso dall’assetto snello delle piattaforme di sharing come Airbnb o Glovo e simili. Amazon muove merci, nel senso che le stocca, le processa, le smista, peraltro più velocemente di tutti.
Il business di Amazon prevede un rapporto costante con la merce. Invece gli altri servizi citati – food delivery e sharing – puntano sull’«esperienza», non tanto la merce in sé. Con Glovo mangi a casa il prodotto del ristorante fighetto senza fare la coda. Airbnb, non a caso, ha iniziato a vendere esperienze, oltre che soggiorni a buon mercato. Peraltro, la user experience nella realtà non è sempre così esaltante. Il cibo arriva freddo, la pizza ribaltata, la casa non è così bella come in foto, l’esperienza è un po’ posticcia. Il sistema Amazon, il food delivery e l’home sharing dividono solamente l’utilizzo della piattaforma online come veicolo.

Anche la qualità del lavoro che viene generato è piuttosto simile…
Fino a un certo punto. In Amazon i dipendenti sono proprio tali, mentre chi lavora per le aziende di sharing possiede lo status di lavoratore autonomo. I rider sono giovani studenti, persone di mezza età che hanno perso il loro impiego e stranieri, ossia tutte minoranze non rappresentate. Se esistesse una vaga coscienza di classe nessuno lavorerebbe mai a condizioni del genere: si parla di lavoretti, gig economy, per l’appunto. Da una parte, hai una catena di montaggio da far invidia ai capitalisti di fine Ottocento e contano anche le volte in cui vai in bagno. Dall’altra, il lavoro è on-demand e portato avanti per lo più con strumenti propri, sebbene l’algoritmo dell’app, le paghe e il costante monitoraggio non lo rendano meno stressante.

In «Capitalism Realism» Mark Fisher descrive bene come la retorica capitalista, dalla Thatcher in poi, abbia sempre predicato la liberazione dalla burocrazia dello stato, ma ci abbia infilato in una burocrazia ben più soffocante e kafkiana, fatta di call center e di sadismo valutativo, ancor meno efficiente e più costosa. Non si potrebbe dire lo stesso dell’opposizione discorsiva tra la vecchia pianificazione urbanistica e il nuovo, suppostamente snello city making?
Progetti partecipati, crowdfunding, project financing, fai-da-te e tutta la galassia di termini legati al city-making non sono altro che soluzioni-tampone che fanno da contraltare al restringimento dell’investimento socializzato, del welfare e dei fondi pubblici in genere.
Per non far notare questo ci si serve due tipi di retorica: quella «grillina» che afferma che i processi gestiti dalla mano pubblica sono intrinsecamente corrotti, e quella darwiniano-liberista secondo cui, affidandoci al finanziamento dei privati, «vince il migliore». È la stessa logica con cui invece di pagare di più i rider che lavorano nel weekend o col cattivo tempo si decide di «premiare» solo il 15% dei «migliori» corrieri ogni mese. Così si paga di meno e si ottiene di più.

A proposito dell’ambiguità tra la versione «dal basso» e quella da smart city del city making, come valutate il bando di airbnb che alloca decine di migliaia di euro a progetti per le comunità locali?
Airbnb è consapevole dei danni che produce. Il sito sta modificando in parte le nostre città, amplifica l’«effetto Venezia» a molti centri storici del nostro paese e non solo. Sempre meno residenti possono permettersi di vivere in ampie aree di città il cui valore sale esponenzialmente grazie al turismo mordi-e-fuggi.
Una piccola fonte di reddito per alcuni (che è poi una gigantesca fonte di reddito per la piattaforma) si trasforma nell’esclusione di altri. Il bando è un tentativo, forse più di immagine, di ridare qualcosa indietro alle comunità. Ma il problema è politico, o meglio di quella forma di politica che è la mediazione urbanistica, e solo da lì si può risolvere.