Alla British Academy of Rome, all’interno del programma Brave New World. New Visions in Architecture, si può ancora vedere per tutta la giornata di oggi l’esposizione Assemble. Ways of Listening.
Gli Assemble sono un collettivo londinese composto da 18 membri equamente distribuiti tra architetti, filosofi, artisti, artigiani, laureati in lettere e psicologia, che dal 2010 mette in campo saperi e competenze differenti con un nuovo modo di pensare il progetto. Il gruppo usa un approccio sperimentale al contesto sociale, umano e ambientale, partendo dalle risorse reperite in situ, coinvolgendo direttamente gli abitanti attraverso un tipo di architettura partecipata dove gli users diventano i makers.
A Toxteth, nella periferia di Liverpool, sono riusciti a risollevare le sorti di un quartiere profondamente in crisi, ridisegnando e seguendo tutte le fasi del processo con la collaborazione degli abitanti. Attraverso una serie di video interviste, installazioni audio, ma anche disegni, oggetti, poesie e produzioni realizzate nei cantieri, i residenti descrivono ai visitatori della mostra l’esperienza di Granby Four Streets, dove un «semplice» workshop si è trasformato in un piano innovativo di rigenerazione urbana.

Nel 2015 questo progetto ha ricevuto 25mila sterline, celebrato come vincitore del Turner Prize. La giuria, presieduta dal direttore della Tate Britain, ha assegnato per la prima volta il premio a uno studio d’architettura, riconoscendo al gruppo di talenti under 30 la capacità di saper utilizzare arte e design per migliorare la vita e le condizioni abitative dei residenti.
Molto simile a un’installazione artistica, ma non privo di una certa concretezza, è il progetto che gli Assemble hanno presentato per Freespace, la XVI Biennale di Architettura di Venezia, in corso fino al 25 novembre. Nel pavimento della Sala Chini, nel Padiglione Centrale dei Giardini, hanno steso piastrelle di argilla, realizzate a mano durante il workshop di Granby Four Streets con l’antica tecnica dell’encausto; il nuovo pavimento sembra riprodurre le decorazioni delle chiese vittoriane ma a uno sguardo ravvicinato rivela la sua dimensione artigianale e l’assoluta casualità del disegno, frutto della combinazione di frammenti di argilla colorati.

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Questa commistione tra arte, architettura, design e artigianato, l’assottigliarsi di quei confini che sembravano distinguere le categorie tradizionali tra i vari campi disciplinari – figura del committente e progettista, artigiano e fundraiser – spingono la ricerca degli Assemble verso una visione allargata e una dimensione processuale del progetto. Senza teorie scritte, ma con la pratica delle esperienze, questa visione sta riconfigurando il ruolo dell’architetto e l’idea tradizionale dello spazio. La mostra alla British Academy è stata l’occasione per parlare a Roma con due membri di Assemble, Fran Edgerley e Audrey Thomas-Hayes.

Il vostro studio di architettura è numeroso ed eterogeneo: 18 membri provenienti da vari campi disciplinari. Da cosa nasce l’esigenza di integrare così tanti e diversi saperi e competenze?
Viviamo in un’epoca in cui l’idea della conoscenza settorializzata viene profondamente messa in discussione. Si percepisce il senso di responsabilità a seconda delle implicazioni della propria professione e pratica. È ormai tempo di allargare lo sguardo e soffermarsi su processi, sistemi, catene di approvvigionamento, ossia sui meccanismi complessi che regolano il lavoro in atto. In tutti quei progetti che coinvolgono molteplici aspetti (sia nella realizzazione che nella relazione con il mondo esterno), per migliorarne l’esito diventano necessarie persone che vogliono e possono lavorare con diversi focus. Crediamo che tutto ciò sia possibile lavorando collettivamente, come un gruppo di individui con interessi, conoscenze, impegni e attività differenti.

Questo modo di operare, nella condivisione di intenti, competenze e pratiche, e nel costante coinvolgimento con gli utenti del progetto, sembra ridefinire i concetti di paternità/autorialità dell’idea messa in campo…
Il concetto di autorialità è ancora molto radicato nelle modalità con le quali il nostro sistema culturale produce valore, è strettamente legato al mondo della politica, della finanza, aggrappato alle controversie sociali… Difficile immaginare quale possa essere l’alternativa. Il nome «collettivo» può aprire orizzonti possibili, è un termine che identifica una rete di sicurezza entro la quale muoversi; resta ancora molto da fare per garantire il giusto riconoscimento a tutti coloro che rendono possibile il lavoro.

Siete stati il primo studio di architettura a ricevere il Turner Prize. Pensate esista un confine tra arte e architettura?
Niente più confini! L’arte e l’architettura si rivolgono spesso a dei mercati o a sistemi di capitale diversi, ma poi non c’è un margine chiaro. Stiamo assistendo sempre più spesso al fenomeno per cui le due realtà sembrano ognuna espandersi e crescere nell’altra.

Quali sono gli strumenti fondamentali nella comunicazione del progetto?
Narrativa, immagini, bellezza e qualità.

Cosa consigliereste agli studenti che stanno per iscriversi all’università?
Di provare a intraprendere una strada in base alle proprie intuizioni. È necessario che facciano ciò che sentono importante per loro, senza sentirsi in colpa nello sfuggire a pressioni esterne, o nello sperimentare sentieri diversi rispetto a quelli che gli vengono richiesti dalle istituzioni.