L’acqua alta arrivata a 160 centimetri, alla fine di ottobre, il ricordo vivido dell’alluvione del ’66, hanno ricordato a tutti la fragilità insormontabile di Venezia, la città sull’acqua, il sogno dei 30 milioni di turisti che arrivano qui ogni anno. Una città in cui la quotidianità è difficile, che perde mille residenti l’anno, in cui spariscono i negozi di quartiere e i bambini vengono multati perché giocano attorno a monumenti troppo preziosi.

IL LIBRO La Venezia che vorrei. Parole e pratiche per una città felice (Helvetia, pp. 180, euro 15 ) raccoglie le idee e i desideri di chi questa città prova a farla vivere, ogni giorno. Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo, dopo aver curato l’antologia sul centenario di Porto Marghera un anno fa (anch’essa edita da Helvetia), mettono assieme le testimonianze di veneziani di nascita o d’adozione, giornalisti, scrittori, storici, studenti (e un fotografo, immenso: Gianni Berengo Gardin), che in città vivono, lavorano, resistono.

PERCHÉ VENEZIA, anche se da molti frettolosi visitatori viene percepita solo come un ottimo fondale per Instagram, in realtà è (da sempre) vitale e creativa, aperta al mondo anche se con dimensioni e posture di una piccola cittadina. Per riuscire a vedere tutto ciò, serve innanzitutto farla finita con l’idea della decadenza presente in tanto cinema e letteratura, come scrive Maddalena Lotter, residuo romantico che agisce come uno stigma sulla città. E occorre narrare Venezia senza che resti però «rinchiusa in una storia mutilata degli ultimi duecento anni», ammonisce lo storico Mario Isnenghi. Il periodo cioè in cui l’isola entra in relazione con la terraferma grazie al ponte ferroviario, vive la sua storia industriale in Giudecca prima e a Marghera poi, diventa la città del cinema e dell’arte internazionale. Non perdere la memoria di sé, come avvertiva Salvatore Settis nel pamphlet Se venezia muore. Ma senza appiattirla al mito del passato o, peggio, alla monocultura del turismo. Perché Venezia è policentrica, contiene mondi, è impossibile riassumerla a parole. Va esperita, vissuta, calpestata. Ha un tempo proprio, una misura (che Le Corbusier elogia e spera venga conservata, come riporta Tiziana Plebani), che poi è quella dell’uomo, che ha saputo costruirla con meticolosa determinazione. Orti, spiagge, istituti di ricerca, comitati per la casa, botteghe artigiane, centri studi per l’innovazione. Tutto riesce a coesistere in un ecosistema unico, in cui l’acqua fa da connettore e orizzonte condiviso.

IL FUTURO di Venezia è già qui. Un’utopia realizzata, frutto di visionarietà ardita e della cura paziente che per molto tempo ha coinvolto tutto il territorio circostante. Oggi molto meno, con cemento e capannoni che stravolgono il delicato intrico di acque che porta alla laguna, mentre le grandi navi incombono sui canali. Ma preservare tutto questo è compito urgente, cui siamo chiamati tutti. Che ci permetta di dire un giorno (ne è certo Federico Gnech) che se «siamo riusciti a salvare Venezia, possiamo salvare il mondo intero».