Ponziana, periferia incollata al centro di Trieste. Dove anziani non escono di casa da anni perché nel palazzo non ci sono ascensori. Dove l’andirivieni umano si coglie solo davanti alle porte alienate del centro commerciale. Un uomo dal volto scavato suona un piano su un terrazzo abitato soltanto dai graffiti. Di spalle la chioma riccia di una donna che ogni giorno percorre queste strade – cortili che sanno di abbandono e privazione – aiutando Plinio, il pianista di cui sopra, a prendere le sue medicine e a tornare a suonare, accompagnando Roberto, provato dagli esiti di un ictus, dalla logopedista, assicurandosi che Maurizio non si perda nei suoi baratri…

Alcuni degli abitanti li incontra per strada, le chiedono un consiglio, un oggetto di cui hanno bisogno; altri li va a trovare, li ascolta, scherza con loro, li pesa se stanno deperendo troppo, li spinge a frequentare il corso di teatro, fa da mediatrice nei rapporti spesso aspri coi parenti, contatta la rete del distretto sanitario, se è il caso. E ognuno di loro si attiva, partecipa, si sente valorizzato: insieme si ritrovano nella sede di Microarea, dove il tempo della solitudine che si spezza.

Quella donna si chiama Monica ed è una referente di Microaree, modello di salute sul territorio e di coesione sociale unico in Europa. (A Trieste oggi ci sono 18 Microaree per una popolazione di 19mila abitanti, il tutto con la collaborazione di tre enti pubblici: l’Azienda Sanitaria, il Comune e l’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale).

Grazie alla guida di Monica, Erika Rossi ha potuto onorare la vocazione del suo luogo d’origine a interloquire con la persona nel suo complesso e nella sua unicità, col precipitato incommensurabile del tracciato di Basaglia, ne La città che cura, documentario che sarà proiettato il prossimo 10 ottobre a Brescia in occasione della giornata Mondiale per la Salute Mentale.

Mentre l’incipit su fondo nero incide incontrovertibilmente le indicazioni dell’OMS (il legame non più ignorabile tra diseguaglianze sociali e diseguaglianze della salute, l’insufficienza della sola medicalizzazione, la necessità – dove sale vertiginosamente il tasso di ricoveri, di cesarei, dove gli alloggi diventano piccolissimi – di un sistema di relazioni che sgretolino il muro di solitudine e povertà), si vive concretamente cosa sia ascolto e prossimità, soggettivizzazione massima dell’incontro terapeutico, si vedono “coppie di anziani che ballano”, stormi di uccelli e un solo sguardo in macchina di chi forse già domani non ci sarà più… ma sa di aver conosciuto attenzione e umana accettazione.

Cosa ti ha portato a questo film, quali passioni?

Fin dall’inizio, come filmmaker, mi sono confrontata con tematiche legate alla salute, alla cura e al retaggio di Basaglia a Trieste. Ne ero attratta dalla scuola, ma all’università ho cominciato a scoprire davvero la storia basagliana che, come quasi tutti, conoscevo solo superficialmente. Ho iniziato ad approfondire con il mio primo documentario, raccontando il lavoro degli operatori a 30 anni dalla legge; poi con un film sulle associazioni che sostenevano la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, avvenuta soltanto nel 2017. In quell’occasione il documentario, insieme allo storico Marco Cavallo, l’opera in cartapesta che simboleggia la rivoluzione basagliana, è arrivato fino in senato.

E arriviamo a La Città che cura

A questo punto volevo esplorare il percorso dalla salute mentale alla sanità territoriale. “Microarea” applica l’idea basagliana della salute intesa in senso relazionale e non solo psicofisico. Quello della medicina territoriale è un modello all’avanguardia, lo studiano dal Giappone, dall’Australia, da mezza Europa. Così quando mi sono imbattuta in Gino Pennacchi (Tico Film), che aveva incrociato la Microarea di Ponziana a causa di un altro documentario, ho sentito che era il momento – oltre la teoria – di conoscere dall’interno cosa fosse il progetto.

Ci parli del rapporto con Monica Ghiretti? La sua è una presenza ricchissima di umanità e competenza ma anche di una salvifica levità…

L’ho incontrata immergendomi nella realtà della Microarea di Ponziana. Quando mi ha accordato la sua disponibilità, me l’ha donata sempre, sopportando prima il mio occhio “non meccanico” e poi quello meccanico. Il referente – uno per Microarea – è l’interfaccia a cui ti puoi rivolgere per qualsiasi cosa. Volevo capire tutte le sfaccettature del suo ruolo. Perché non è uno psicologo né un assistente sociale né un infermiere. Spesso, oltre a un apprendistato sul campo, ha una formazione legata alla sociologia, a studi che approcciano la persona dal punto di vista della relazione. Stavo con Monica tutto il giorno, fianco a fianco: gira come una trottola. Il rapporto che ha con gli abitanti è assolutamente paritario. Leggerezza sì, per il suo modo di porsi e perché tutto avviene nell’informalità del quotidiano.

Come sei arrivata a scegliere Plinio, Roberto e Maurizio e cosa ha comportato la tua presenza umana e registica in queste storie al tempo stesso delicatissime e resilienti?

Sono le persone che mi hanno accordato spontaneamente un’intimità nelle loro case. Le accomunava una cifra di crisi e di potenzialità di cambiamento. Speravo di poter raccontare vicende di riscatto. Ho atteso tanto prima di girare per poter trovare quella sintonia che consente la presa in carico da un lato e l’affido dall’altro, nel cinema come in ambito terapeutico. A volte restavo accovacciata a lungo a cogliere anche il minimo sussurro. In certi casi mi sono trovata da sola con loro nella condizione di dover dare il primo soccorso. Ma sono stati momenti di grande umanità ben oltre il film.

La tua “città che cura” è una Trieste altra e poco narrata.

Volevo mostrare la scarsezza dell’attraversamento umano in questi luoghi. A Ponziana, ad eccezione dell’andirivieni davanti al centro commerciale, ovunque aleggia un senso di solitudine. Eppure non stiamo parlando di chissà quale quartiere degradato alla periferia di Roma: la particolarità di Ponziana è quella di essere a un passo dal centro di Trieste, che sembra l’esplosione del nord-est ricco e florido. Ritrovarsi lì è come passare le colonne d’Ercole, subito percepisci lo stato di disagio e di emarginazione: anziani lasciati a se stessi, famiglie che non sanno come star dietro ai loro adolescenti, persi nel nulla dei bar e dell’alcol. Mi piaceva venisse fuori la non eccezionalità del quartiere, il suo essere non luogo. E come tale il suo rassomigliare a qualunque quartiere di una città di provincia italiana.

Sottolinei fin dall’incipit il legame indissolubile tra diseguaglianze sociali e diseguaglianze della salute.

Già dal 2008 l’OMS ha cominciato a parlare di diseguaglianze sociali e di quanto queste influiscano sul deterioramento della salute di territori poveri in termini non solo economici ma culturali e strutturali. Quindi c’è poco da rivendicare bandiera politica, l’evidenza è questa. Microarea è un servizio avanzato, in cui il cittadino è curato in tutti gli aspetti della sua vita. Un modello ancor più necessario tanto più oggi si ritiene centrale la questione delle periferie. Perché non si può pensare di intervenire solo quando la persona sta male, non si può rispondere ai bisogni di un territorio solo con un ospedale: quello non è fare salute, quello è tappare i buchi.

Un elemento di Microaree che emerge dal film è il coinvolgimento dei parenti. Spesso chi è in difficoltà conosce situazioni di non accettazione dalla famiglia di origine, che si assommano in modo insostenibile alla non accettazione sociale.

Quando ci sono condizioni di povertà culturale, il coinvolgimento dei tuoi cari è più difficile. Se già si vive sulla propria pelle la privazione, si è meno propensi all’empatia, a farsi carico di ulteriori rogne. È una equazione di vita. Ma nel momento in cui la Microarea crea una cultura di comunità, le persone sono in grado di mettere in atto solidarietà e vicinanza e di comprendere quanto abbiano bisogno di quella rete e quanto quella rete possa dargli.

L’imprinting emotivo del documentario è segnato dalla musica di Plinio …

La scena di Plinio che suona sul ponte l’ho girata a monte perché mi sembrava molto bella. Poi, al montaggio, con Beppe Leonetti, abbiamo capito che questa musica che aleggiava sopra i tetti del quartiere avrebbe potuto rappresentare lo spirito di speranza e di solidarietà del film. Qualcosa che ci riguarda tutti.

BOX

Il sistema Sanitario Nazionale italiano, istituito nel 1978, è stato il primo in Europa. Il Progetto Microaree nasce da un’idea dell’allora direttore dell’Azienda Sanitaria di Trieste, il dott. Franco Rotelli, nel 2005. Per “microarea” si intende “un territorio fisicamente aggregato (quartiere, piccolo comune, agglomerato di case), che comprende da 1000 a 2500 abitanti”.

Il modello Microaree continua a propagarsi e nel film si discute su come diffonderlo. Il titolo del documentario di Erika Rossi prende spunto da quello del volume La città che cura Microaree e periferie della salute, a cura di Giovanna Gallio, Maria Grazia Cogliati Dezza (quest’ultima con Basaglia dal ’72 e tra i fautori di Microarea), edizioni Alpha Beta Verlag Merano, collana 180. Future proiezioni del film si terranno il 9 ottobre a Brescia, il 22 ad Alessandria, il 26 a Modena, il 21 nov. a Cervia.