Orso d’Oro alla Berlinale 2014, Fuochi d’artificio in pieno giorno (titolo fedele all’originale cinese, mentre in inglese è stato tradotto con Black Coal, Thin Ice), scritto e diretto da Diao Yinan, è il classico poliziesco che ci si aspetterebbe prodotto a Hong Kong e che, invece, arriva dalla Cina. Il regista, in questo caso, ha scelto la via più commerciale, mettendo da parte quella più autoriale che, paradossalmente, gli aveva fruttato premi meno importanti dell’Orso d’Oro, a detta di molti strappato ingiustamente dalle mani di Richard Linklater che, nell’edizione 2014, concorreva con l’acclamato Boyhood.

In effetti, un certo qual stupore lo si prova di fronte a un verdetto del genere, ma le giurie dei Festival sono fatte così, scontate quando si pretende la sorpresa, destabilizzanti quando si vorrebbe il conforto dell’ovvio.
Il film oltre a cercare di divincolarsi dalle maglie strette dell’autorialità, si smarca anche dalla presa fatale della censura. E accade subito. Siamo nel 1999, un cadavere fatto a pezzi è rinvenuto in una miniera di carbone. E ce ne sono altri di cadaveri e di pezzi. Una sgangherata squadra di polizia indaga fino ad arrivare a fermare due sospetti in un salone di bellezza. La dabbenaggine degli agenti porta a un conflitto a fuoco, dove muoiono due poliziotti. A salvarsi è il protagonista, Zhang Zili, che ritroviamo cinque anni dopo nelle vesti di una guardia di sicurezza in una fabbrica.

Tolti i panni del poliziotto, Zhang si trasforma in un personaggio all’apparenza più modesto, destinato a non colpire l’attenzione dei censori cinesi, e forse nemmeno l’immaginario di uno spettatore in cerca di un altro figlio di Chandler. Zhang può tranquillamente agire fuori dalle regole, come scritto nel manuale del noir, senza offendere l’onore di un corpo di polizia che resta integro anche se povero di elementi brillanti (la semplicità con la quale gli agenti sono uccisi sembra denotare una qualche lacuna nella loro formazione!).

Divorziato, ma questo era accaduto prima del tragico conflitto a fuoco, alcolizzato, solitario e poco incline a seguire le regole, Zhang sembra possedere tutti gli ingredienti richiesti quando si prepara il protagonista di un racconto noir. In realtà, da un personaggio come Zhang ci si aspetterebbe qualcosa di più che una sbronza o un amplesso rude.

E l’impressione è che lungo il tragitto il regista sia stato colto da nausea e rigurgiti di autorialità tali da farlo oscillare continuamente tra un cosiddetto racconto alto e uno popolare, senza con ciò intraprendere un percorso personale e originale. Ad ogni modo, diventato un agente di sicurezza, Zhang rientra in gioco nel caso dei cadaveri fatti a pezzi. Incontra un suo ex collega durante un appostamento. Sta seguendo una donna che è collegata alle vittime di ieri e di oggi, perché nel frattempo il killer continua a uccidere e amputare.

Wu Zhizhen, il nome della donna, è il personaggio che completa il quadro. Mancava, infatti, la dark lady, la femme fatale capace di far scendere agli inferi Zhang che, per conoscerla, si finge un cliente della lavanderia dove la donna lavora. Dunque, una guardia di sicurezza che deve mostrare agli operai come funziona un estintore e una donna dall’aspetto dimesso che carica lavatrici e stira panni. Con questi due tipi, Diao Yinan, amico di Jia Zhang-ke e Yu Lik–wai, vorrebbe imbastire una trama fatta di orrori, colpi di scena e sesso, finendo per approdare in un più introspettivo film sulle relazioni interrotte, su una solitudine radicale, impossibile da sconfiggere.

Zhang, infatti, si interessa a Wu Zhizhen più per noia e per paura di perdersi definitivamente nell’alcol, che per passione e senso di giustizia. La soluzione del caso, e la storia di Wu Zhizhen sono dei passaggi obbligati per chiudere il film. Mentre la Cina o, meglio, quella parte del nord, resta lontana sullo sfondo, visibile come i fuochi d’artificio in pieno giorno.