Annunciato dalle immagini di un gruppo di giovani che ballano, sulle note di Go West re-interpretata dai Pet Shop Boys, Mountains May Depart (titolo cinese Shan He Gu Ren) è il grande ritorno di Jia Zhang-Ke a uno dei temi favoriti della sua opera – l’impatto del capitalismo e dell’impennata economica sull’identità della Cina e sulla sua geografia, fisica, umana e sociale. Dopo l’approccio quasi documentario di Still Life e quello obliquamente metaforico di The World, il regista/sceneggiatore sceglie una grammatica epico-minimalista simile a quella di Platform e una tela molto ampia per tratteggiare questo affresco, che si muove dal melodramma classico a sfiorare la sci fi; dalla città natale di Fenyang (dove spesso ambienta i suoi film) all’Australia; dal formato del fotogramma «quadrato», del1’1:33, a quello allungato, futuribile dello scope.

Diviso in tre parti (i credit non arriveranno che dopo cinquanta minuti) rispettivamente ambientate nel 1999, nel 2014 e nel 2025, Mountains racchiude nel percorso di tre personaggi la storia della Cina del terzo millennio ponendosi facilmente come il film di maggior respiro e ambizione visto finora in concorso; oltre che il più struggente e uno dei più belli. Al suo cuore, ancora una volta è la performance straordinaria di Zhao Tao, che oltre ad essere la star abituale del regista è anche sua moglie.

La incontriamo poco più che ventenne, insegnante di musica e danza, contesa da due corteggiatori e amici di sempre – Zhang (Zhang Yi) un giovane parvenu con gli occhiali a specchio e una Volkswagen rossa e Lingzi (Liang Jin Dong) che lavora in miniera. Il primo le regala un cd di musica di Hong Kong, simbolo della sua attrazione occidental-consumistica, il secondo un fil di ferro foderato di velluto rosso, con cui può acconciarsi i capelli in molti modi diversi. Il mood unisce l’esuberanza della gioventù alla promessa del nuovo millennio – squarci di cultura pop irrompono nelle immagini delle celebrazioni tradizionali del Capodanno. La dinamica del rapporto tra i tre amici è raccontata magnificamente da Zhang-Ke e dal suo abituale direttore della fotografia, Yu Lik Way attraverso le relazioni spaziali e la composizione del fotogramma. Li vediamo in macchina, in discoteca, accendere dei fuochi d’artificio sulla riva del Fiume Giallo. Quando Zhang diventa proprietario della miniera in cui lavora Lingzi le differenze sociali, e di stili, tra il ragazzo ricco e quello povero, si acuiscono. Ben presto Thao, che vive nel sogno impossibile di un’eterna adolescenza in cui continuare la loro fraterna avventura a tre, dovrà scegliere. Anche lì è il linguaggio dei corpi a raccontarci tutto, in una scena molto bella sulla pista da ballo. Il cuore spezzato, Lingzi, il più attaccato alle sue radici e alla tradizione, parte per andare a lavorare in una miniera della Mongolia – il suo un gesto così definitivo che, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, butta le chiavi di casa – un simbolo delle origini, questo, che ricorre spesso. Shen e Zhang rimangono, ma quando si fanno fotografare in abiti nuziali non è sullo sfondo del Fiume dove andavano a giocare da ragazzi ma su quello di una gigantografia dell’Opera di Sidney.

L’immagine sullo schermo si distende nel formato standard, dell’ 1:185, con il passaggio al 2014. I rossi, blu e verdi accesi usati con grande efficacia nei set e nei costumi della prima parte si smorzano in toni molto più pacati. Sheng è ancora a Fenyang, ma è sola, divorziata da Zhang che è andato a vivere a Shangai portando con sè anche il figlio, che ha voluto grottescamente battezzare Dollar e che frequenta una scuola internazionale. Benestante proprietaria di una stazione di benzina, Sheng ha il volto più triste, invecchiato, ma sempre dolcissimo.
Avrà occasione di vedere ancora una volta Lingzi, quando lui torna con la sua famiglia, malato di un cancro incurabile. E avrà occasione anche di passare qualche giorno con il suo viziatissimo bambino, quando lui viene al funerale del nonno. La giacchetta blu blasonata d’oro, e al collo un foularino arancione di Hermes, Dollar skypa continuamente con la nuova moglie di Zhang e non capisce perché sua madre lo porta in viaggio su un treno che si ferma a tutte le stazioni.

Il suo visetto è un grosso punto interrogativo quando la mamma gli mette in mano anche un paio di chiavi di casa «perché potrai sempre tornare qui». Quanto sia vano quell’invito, lo scopriamo nella terza parte di Mountains, che si svolge nel 2015 in un lussuoso resort sulla costa australiana. Mare azzurro aldilà delle vetrate, colori slavati e un campo da golf. La fotografia di Yu LIk Way allarga ulteriormente l’immagine – siamo in scope. Zhang adesso si fa chiamare Peter e Dollar il cinese non se lo ricorda nemmeno più. Dimenticato è anche il nome di sua madre. «Sono nato in provetta», risponde il ragazzo alla nuova maestra (Sylvia Chang), anche lei un’expat, che prima di arrivare a Oz ha vissuto a Toronto, e che sta divorziando da un marito occidentale e gretto.

In quello che è il capitolo più irrisolto ma forse anche il più affascinante del film, Zhang-Ke immagina una diaspora dolorosa, inguardabile. La deriva di un’identità (nazionale) che produce dei naufraghi, confusi e spersi.
La sua è indubbiamente una riflessione sulla Cina (la cui conclusione viene affidata, con enorme dolcezza e ironia a un’ultima immagine di Thao –ancora sulle note di Go West).
Ma è abbastanza inevitabile, guardando il film – e dopo la dieta a base di immaginario globalizzato che ci sta passando questo concorso 2015- non vederlo anche come una riflessione sul cinema.