La Ue cerca di affilare le armi e di costruire un fronte comune nelle relazioni con la Cina, malgrado la defezione dell’Italia, che fa seguito a quella di altri paesi Ue, una dozzina, che hanno già aderito o hanno l’intenzione di farlo all’iniziativa Belt and Road, l’offensiva economica di Pechino. Ieri, il Consiglio europeo ha discusso di rapporti Ue-Cina, sulla base del documento in dieci punti preparato dalla Commissione, in vista del summit Ue-Cina di inizio aprile. Martedi’, all’Eliseo, Emmanuel Macron, che incontra la vigilia a Beaulieu il leader cinese, accoglierà Xi Jinping assieme a Angela Merkel e Jean-Claude Juncker presidente della Commissione. Una messa in scena per mostrare un po’ di forza di unità, per insistere sul fatto che la Via della seta deve funzionare non a senso unico, ma nelle due direzioni. In un clima di forti tensioni commerciali, la Ue cerca di costruire le basi per una partnership forte, ma inquadrata, mentre Croazia, Repubblica ceca, Ungheria, Grecia, Malta, Polonia, Portogallo, ultima l’Italia (ma primo paese del G7 e fondatore della Ue) si sono già fatti sedurre dalle offerte di investimenti cinesi, rompendo un ipotetico fronte unito europeo.

La Cina è un “partner di negoziato con il quale la Ue deve arrivare a un equilibrio di interessi”, ma è al tempo stesso “un concorrente economico” e un “rivale sistemico”. In questo contesto, “sia la Ue che gli stati membri non possono raggiungere i loro obiettivi rispetto alla Cina se non sono veramente uniti”, mette in guardia la Commissione.  Uno dei punti centrali, è ottenere la “reciprocità” per avere relazioni economiche più equilibrate: il problema vale anche per gli Usa, la Ue vuole arrivare a un’apertura sugli appalti pubblici, anche da parte di Pechino, per non passare come l’entità “ingenua” che apre i mercati agli altri e non ottiene la stessa cosa, accusa ricorrente da parte dei nazionalisti (che poi si accordano con il gigante cinese).  Gli appalti pubblici nella Ue sono 2400 miliardi, il 16% del pil europeo: la Commissione vuole una penalità fino al 20% sugli investimenti esteri, se non c’è reciprocità. L’Ue è stata unita nel non riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato. Adesso intende stabilire dei “sistemi di allerta” rispetto a certi investimenti che possono essere considerai “predatori” o sollevare problemi di sicurezza. C’è nella Ue un accordo di massima sul controllo degli investimenti esteri: uno stato che va contro l’opinione della Commissione dovrà giustificarsi ed è possibile un ricorso di fronte alla Corte di giustizia (l’Europarlamento ha votato a favore). La Ue nel suo insieme ha qualche arma in mano per negoziare accordi più equi con la Cina: la Ue è il primo partner commerciale della Cina, mentre la Cina per la Ue è il secondo, gli scambi hanno un valore di circa 1 miliardo di euro al giorno, per le merci squilibrati a favore della Cina (nel 2017, 198 miliardi esportati dalla Ue in Cina e 375 miliardi importati), ma favorevole per i servizi (45 miliardi esportati dalla Ue, 28 miliardi dalla Cina). C’è in primo piano la questione della 5G. La Ue pensa di essere in grado di reagire su questo fronte, con Nokia e Eriksson, rispettivamente al secondo e al quinto posto in questo settore nel mondo. Ma l’offensiva di Huawei preoccupa, non solo la Ue ma anche gli Usa, ci sono sospetti di possibile spionaggio. La Commissione, come già il manifesto firmato da Francia e Germania, sottolinea il problema che esiste con la legge cinese sulle telecom, che implica la censura.  I paesi scandinavi sono scettici, quelli del sud (Grecia, Malta, Portogallo, Italia) pronti a cedere per attirare investimenti. La Germania, che a lungo ha frenato per una posizione più netta della Ue, ha cambiato idea, dopo il caso dell’Opa su Kuka, un gioiello tedesco della robotica finito in mani cinesi.