Mo Yan
Lo scrittore Mo Yan

La percezione di un paese e l’abilità di esserne narratore, sono due elementi che non si basano solo sulla permanenza e la vita nei luoghi di cui si prova a raccontarne la vita. Si tratta di entrare in un’empatia continua con il mondo circostante, attraverso la vita quotidiana e l’immaginario. La letteratura è uno di questi squarci che consentono un avvicinamento al tema della propria indagine, che mischia le necessità professionali all’ambizione di comprensione personale. Marco Del Corona è stato il corrispondente del Corriere della Sera in Cina per parecchi anni. Grande conoscitore del paese e dell’area (di tutta l’Asia), una volta tornato in Italia ha dato alle stampe Un tè con Mo Yan (ObarraO edizioni, pp.139, euro 12), una raccolta delle interviste effettuate durante la sua permanenza in Cina agli scrittori cinesi. Attraverso le parole di quegli autori e autrici vengono narrate tante Cina quante ne siamo abituati a conoscere, vivere, scorgere, interrogare.

L’antipatia di Mo Yan, uno scrittore arrivato al Nobel dopo aver raccontato un periodo del suo paese, quello agricolo, contadino, si mischia alla brillantezza di Yu Hua, alle problematiche sempre presenti quando si parla di letteratura in Cina, la censura, le ottusità di funzionari.

Nella carrellata offerta da Del Corona ci sono tanti autori e autrici cinesi sconosciuti dalle nostre parti. Mo Yan è noto, come Yu Hua e come, forse, Yan Lianke e Acheng. Altri sono famosi in Cina, vendono milioni di copie, ma dalle nostre parti non arrivano. Antico problema, la traduzione dal cinese e la «cinesità» della produzione letteraria del gigante asiatico, sempre arroccata sulla propria storia, il peso delle radici, l’origine di un’unicità che oggi tende a svariare nella gradazione pericolosa del nazionalismo. Ultimamente ha provato a sfoderare qualcosa una casa editrice, la Memori, che ha pubblicato una giallista molto celebre in Cina, Feng Hua (Come un’ombra che mi segue, pp. 240, euro 17,50) che, attraverso trame semplici e copioni da thriller classico, indaga la società cinese contemporanea, attraverso protagonisti giovani, che offrono una costante sensazione di costrizione e di latente bisogno di fuga. E poi c’è l’orientalismo, la percezione di rappresentare la Cina secondo i nostri supposti canoni universali di interpretazione.

A questo riguardo si esprime lo scrittore e pittore Feng Jicai (un altro sconosciuto in Italia) che spiega a Del Corona: «Penso che gli europei amino la cultura antica del nostro paese. Ma gli europei non conoscono né i cinesi, né la Cina di adesso. Gli occidentali per motivi storici hanno una visione esotica, orientalistica. Non capiscono i cambiamenti improvvisi avvenuti negli ultimi anni. Non riescono a comprendere come mai la Cina si sia sviluppata così velocemente. Ritengono che viva ancora sotto l’ombra di Mao e della Rivoluzione culturale». Ed ecco allora alcuni fenomeni tipicamente cinesi, come i giovani Han Han e Guo Jinming che si presenta in Cadillac, fenomeni nati sull’internet cinesi, un universo spesso rintuzzato nella categoria «censura». Quest’ultima esiste, non è un’invenzione degli occidentali. Acheng, celebre scrittore cinese, non va al cinema da dieci anni e ha un romanzo pronto da venti, ma non esce perché bloccato dalle maglie censorie.

E allora sullo sfondo si erge una domanda insoluta: gli autori che diventano famosi, hanno venduto in qualche l’anima al diavolo del Partito?