Il groviglio di effetti e contro-effetti delle politiche monetarie espansive dimostra il livello di integrazione economica globale raggiunto. Per quanto la crisi abbia dato vita anche a processi di ripiegamento intorno agli interessi degli stati-nazione, l’intreccio sovranazionale dell’economia finanziarizzata è tale che un ritorno a conflitti eminentemente geo-politici per ora appare piuttosto remoto. Dai tempi della stretta monetaria di Reagan si sono susseguite scelte di continuo aumento della massa monetaria. L’ultima crisi ha accentuato ancor più tale tendenza facendola assurgere a unico provvedimento per arginare le difficoltà economiche. Il volume di moneta in circolazione è andato crescendo prima attraverso tassi d’interesse quasi a zero e dopo con i quantitative easing adottati da tutte le principali banche centrali.

Il simbolico passaggio del testimone tra Fed e Bce costituisce l’ultimo tassello di una scelta di fondo in fatto di regolazione della moneta. Inondare il sistema di liquidità, però, non ha avuto solo gli effetti noti, cioè un raffreddamento della crisi, un recupero dei valori finanziari, insieme a una sproporzione tra la quantità di moneta immessa (nei soli Usa quadruplicata) e i risultati ottenuti sul fronte dell’economia reale. Ha determinato anche una sorta di potere d’attrazione verso il versante finanziario a livello planetario. I paesi emergenti, infatti, hanno incontrato una massa monetaria in cerca di rendimento tale da inibire un reinvestimento della loro crescita sul lato interno, per rilanciare invece proprio nel ben più remunerativo versante finanziario globale.

Le banche centrali nel loro pompare moneta hanno fatto ricadere una parte, seppur minore, di finanziamenti anche nel motore della crescita degli emergenti, contribuendo alle performance straordinarie ottenute in questi anni. Oggi però il quadro muta sensibilmente. La droga immessa nel meccanismo ha sortito qualche effetto giudicato sufficiente per rallentare la corsa al denaro facile e avviare un percorso di lenta normalizzazione.

Gli Usa riducono così il loro interventismo monetario e gli effetti si vedono immediatamente. La crescita di valore del dollaro appesantisce i debiti in dollari contratti dai paesi emergenti. Se poi aggiungiamo la mancata crescita europea vediamo come gli investimenti tornino progressivamente all’ovile, con il risultato di far piombare in recessione Brasile e Russia, rallentare Cina, Turchia, Sud Africa.

In questo momento persino tra emergenti vi è un condizionamento negativo reciproco. La potenziale crisi da sovraproduzione che potrebbe esplodere in Cina, coniugata con un profilo della crescita tutto sbilanciato in favore di un indebitamento spropositato, è sintomo di una mutazione complessiva. Le ricette immediatamente messe in campo dal colosso orientale sono le consuete (quantitative easing, ulteriore deregolamentazione del sistema bancario e sbilanciamento a favore degli attori privati) e danno la misura di una incredibile convergenza negli assetti finanziari ed economico-produttivi. Nessuno può permettersi un rallentamento in Cina, sia sotto il profilo strettamente industriale, sia su quello finanziario. Una sorta di quantitative easing globale, con annesse politiche di ulteriore indebitamento, sembra essere l’unica carta giocata per evitare il peggio, o forse per allontanarlo.

In un recente pamphlet, Giangiacomo Nardozzi ha sostenuto che «c’è troppa finanza perché c’è troppa politica monetaria», poiché il governo dell’economia si basa prevalentemente sull’assunzione del rischio e sui canali finanziari per commerciarlo.

Ma quando anche la cosiddetta «fabbrica del mondo» in un così breve lasso di tempo ha assunto il profilo dell’economia finanziarizzata c’è da chiedersi se sia ancora ipotizzabile un’economia reale sana senza che se ne cambino i connotati di fondo.