Giovedì la Cina ha votato contro una risoluzione, poi approvata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, per aprire un’inchiesta sui presunti crimini di guerra commessi dalla Russia in Ucraina. Secondo le parole del portavoce del ministero degli Esteri di Pechino la risoluzione sceglierebbe «di colpire alcuni paesi mentre ignora le guerre ingaggiate da altri».

Insieme alla Cina ha votato contro l’Eritrea, tra gli astenuti Pakistan, India, Cuba e Venezuela. La risoluzione è stata approvata con 33 voti favorevoli. A votazione ultimata la stampa di stato ha riportato le parole del rappresentante cinese all’Onu, una summa di quella che dall’inizio della guerra è stata la posizione di Pechino. Una disponibilità agli aiuti umanitari, una condanna di una guerra che colpisce i civili, la necessità di arrivare a un cessate il fuoco, come da copione: la Cina ha lasciato ampiamente capire che questa guerra sarà dannosa per tutti, rischierà di porre molti rischi al proprio processo di crescita (rischi aumentati con il Covid che impazza e stordisce in maniera letale il consumo interno) e più in generale agli affari economici di tutti.

Alla fine delle sue dichiarazioni c’è la critica del «doppio standard» occidentale, a motivare il no a una inchiesta che tutto sommato era quanto la Cina aveva chiesto dopo le prime denunce dei crimini russi a Bucha, Izium e Borodyanka. Questo voto contrario è stato letto come la prova che la Cina è ormai salita sul carro russo; è un’ipotesi, anzi sicuramente il voto è un messaggio anche a Mosca, che nelle settimane scorse aveva lasciato trapelare un certo malcontento per il comportamento cinese riguardo le sanzioni: Pechino pur criticandole, anche in sede Onu, le sta rispettando.

Ma la Cina parla sempre a più interlocutori, le sue esternazioni sono sempre dirette a più soggetti. Nel clima da «guerra cognitiva» in cui siamo immersi, con una sorta di imposizione a procedere in fretta, a cercare sempre soluzioni semplici, o bianche o nere, cerchiamo di dare un senso ad alcune azioni senza fermarci a ragionare sul fatto che per alcuni paesi, come ad esempio la Cina, i punti di partenza di certi ragionamenti e quindi le conseguenze, sono differenti dai nostri.

In questo senso il voto di ieri è un messaggio alla Russia, certamente, ma lo è soprattutto agli Usa e alla propria opinione pubblica. In questo senso la posizione della Cina dall’inizio dell’invasione si è andata a raccogliere in due direttrici. Una è specificamente economica, come confermato dalle telefonate di Xi Jinping a Macron a Scholz, cui ha chiesto un’autonomia di azione rispetto a Washington, specificando che i vantaggi economici di una cooperazione sono maggiori delle differenze in altri campi. Ed ecco il messaggio agli Usa: se dal punto di vista economico Pechino non mette limiti alla cooperazione, da un punto di vista politico Xi sembra avere ormai tracciato una linea invalicabile; Usa, Ue e Cina sono diversi politicamente, nella propria considerazione dei diritti e nel modo di governare, ma questo non significa che ci sia qualcuno superiore all’altro.

Per la Cina questa diversità non è un impedimento a fare affari insieme, ma è un punto fermo della sua politica estera, vale a dire la richiesta di essere considerato un partner di pari diritto e non un paese «dalla parte sbagliata della storia». Per questo Pechino rinfaccia all’Occidente un «doppio standard» sul quale dimostra di non voler lasciar correre in alcuno modo. Del resto la Cina ha già dimostrato che la narrazione degli eventi che hanno portato alla guerra funziona in molte zone del mondo. Prima che fossero Macron e l’Ue a lanciare l’allarme, ad esempio, di una crisi alimentare per Africa e Medio Oriente, Pechino aveva già incontrato gran parte dei rappresentanti dei paesi garantendo sostegno economico in caso di crisi.

Naturalmente questo approccio ha dei limiti: in primo luogo la Cina non può tirare troppo la corda con l’Ue, perché così come la Cina è importante per i paesi europei, i mercati dell’Unione sono altrettanto fondamentali per Pechino. In secondo luogo il concetto di multipolarismo democratico decantato da Pechino, non è esente da un’idea egemonica che può tramutarsi in qualcosa di diverso da una «uguaglianza» tra le potenze mondiali. Il recupero di Confucio da parte di Xi Jinping – infatti – potrebbe portare la Cina a concepire la «stabilità» tanto richiesta, come il risultato di rapporti gerarchici ben definiti, in cui non tutti sono uguali, anzi.

Secondo lo storico e sinologo Timothy Brook «un’autentica armonia non può che emergere dall’uguaglianza, altrimenti non è vera armonia ma assoggettamento del più debole al più forte. Secondo la visione confuciana, questo è il prezzo da pagare, e nemmeno troppo oneroso, per garantire la stabilità globale». Anche Hu Jintao, il predecessore di Xi, si era affidato a un generale concetto di armonia proiettato però su una dimensione soprattutto interna. Concetto reiterato poi all’esterno in modo più sommesso. Xi Jinping ha portato invece la stabilità a ergersi a principio assoluto, sia nella politica interna, sia nella politica estera.

Si tratta di due Cine diverse, ma è questo il dato che le controparti europee e americane dovrebbero ricordare, provando a evitare che Pechino scavalchi un confine oltre il quale le conseguenze potrebbero essere dannose per tutti, non solo per la Cina, invece di provare a spingere Pechino proprio in quella direzione.