La prima volta che ha iniziato a filmare era il 2014: Huzhou, 150 chilometri da Shangai, l’est industriale della Cina dove corrono i sogni di tanti giovani e giovanissimi. Lavoro, soldi, una nuova vita lontana dalla miseria delle campagne da cui molti di loro arrivano. L’azienda del tessile che rifornisce quasi l’intero Paese – prodotti solo per il mercato interno – si concentra lì. Piccole aziende specializzate quasi tutte in vestiti per bambini che aprono con rapidità fulminea, non c’è bisogno infatti di registrare il marchio, basta avere un piccolo capitale a disposizione e qualche operaio. E per essere assunti non serve esibire un certificato professionale, l’unico requisito obbligatorio è la velocità: produrre in fretta più capi possibile inchiodati alla macchina da cucire giorno e notte per pochi soldi e una vita di amarezze. Dormitori tutti uguali, solitudine, smart-phone. Se non si è abbastanza produttivi in un attimo ti licenziano, non c’è nessuna difesa, nessuna garanzia.
Wang Bing è rimasto lì per tre anni, Bitter Money è il primo capitolo di un progetto che ne comprende un altro a cui sta lavorando. Nel frattempo ha girato lungo il confine tra Cina e Birmania Ta’ang sui migranti in fuga da una guerra etnica. Ma questa è un’altra storia.

 

 

 
All’ultima Mostra di Venezia, Bitter Money è stato premiato col Leone d’oro alla sceneggiatura, potrebbe sembra strano se si conosce il suo lavoro, anche se questo magnifico cineasta nei suoi film che raccontano l’epica antieroica della Cina contemporanea, segue in effetti la scrittura sempre precisa di uno sguardo capace di cogliere le epifanie della realtà con cui si confronta. Senza sottrarvisi nemmeno nelle situazioni più difficili, di tensione o di violenza, di sopraffazione o di emarginazione. Che sostiene opponendovi la fermezza sensibile di un’inquadratura mai retorica, senza compiacimenti né facili emozioni.
La nostra conversazione è avvenuta al Lido di Venezia l’ultimo giorno del festival.

 

 

 
C’è in questo film una vicinanza quasi intima tra lei e i personaggi che ci vengono mostrati in situazioni dure, tese, dolorose. Penso alla scena col litigio molto aspro tra una delle protagoniste e il marito.
I primi tempi ovviamente era molto diverso. Poi le distanze tra me e le persone che filmavo si sono ridotte, hanno imparato a conoscermi, si sono abituati alla mia presenza. La particolarità di Huzhou è che chi cerca lavoro arriva da tutta la Cina ma al tempo stesso fanno sempre riferimento a qualcuno che conoscono e che è già lì perché potrebbero perdersi facilmente. Nel caso specifico della lite tra la moglie e il marito la situazione era molto delicata: conoscevo la donna ma non lui e non sapevo se era il caso di intervenire a parte la mia presenza dietro alla macchina da presa. Ho pensato che se continuavo a filmare qualcuno dei loro amici poteva fermarli e così è stato. L’uomo che è intervenuto conosceva il marito, veniva dalla stessa città, è stato capace di calmarli e di impedire la violenza. Questa sua azione mi è sembrata la cosa più importante. In questo film mi interessava dare spazio alle loro storie, anche per questo ho utilizzato delle inquadrature che passano da una persona all’altra; è come se la macchina da presa fosse qualcuno che li ascolta permettendogli di raccontare le proprie esperienze.

 

 

 
I personaggi parlano solo di soldi, sembrano non avere nessun altro scopo, però sono «Soldi amari» come dice il titolo del film.
La zona in cui ho filmato si trova vicino a Shangai, economicamente è una delle più forti dell’intera Cina con un volume di guadagni che non esiste altrove. Gli abitanti di quella regione sono tradizionalmente considerati dei lavoratori, e anche sul piano politico i loro governi hanno sempre puntato sull’economia: se ci sono maggiori opportunità di fare soldi sono tutti più contenti. In questi anni si è sviluppata una grande attività tessile che si concentra soprattutto sulla fabbricazione di vestiti per bambini. Gli operai arrivano dalla campagna e sono pagati a pezzo, da 1 a 3 yuan secondo la difficoltà di fabbricazione del capo. Più si lavora più si guadagna, lavorano anche l’intera notte per cercare di produrre un numero maggiore di pezzi possibile. Lo stesso vale per i padroni se vogliono garantirsi un margine di guadagno consistente.

 

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Ci sono anche grandi marchi stranieri nella zona?
No, soltanto piccoli laboratori specializzati nella fabbricazione di abiti per bambini con una produzione che corrisponde all’80% di quella nazionale. I vestiti vengono anche esportati in Laos, in Thailandia, nel Sud est asiatico e un po’ in Russia. Ma non in Europa perché i materiali utilizzati non sono a norma. Le grandi fabbriche si trovano in altre regioni, lì sarebbe rischioso avere troppi operai, la zona si basa su un’economia libera, le attività si possono avviare molto facilmente. In effetti questo garantisce un certo dinamismo, se una fabbrica fallisce se ne può subito aprire un’altra, basta trovare un po’ di soldi e qualche operaio. È la caratteristica principale della città, una cosa che non è possibile nel resto della Cina. Bitter Money è la prima parte di un’opera più ampia, nella seconda mi concentro sulle relazioni tra gli operai dei laboratori e sulla frenesia che domina la città.

 

 

 
Come ha lavorato in montaggio con un materiale raccolto in più anni?
Mentre giro penso già ai personaggi e a come costruire la narrazione, il montaggio mi permette di definire altri dettagli che sono però ugualmente importanti. Durante le riprese cerco il film, e rispetto all’idea che ho in mente so già quale inquadratura rimarrà, cosa corrisponde al progetto estetico e narrativo che ho pensato per quel preciso lavoro. A volte può capitare che il film si blocchi perché devo riflettere su quale sarà la sua direzione. Può succedere di cambiare ma serve per andare avanti.

 

 

 
Chi sono gli operai di «Bitter Money»?
Soprattutto giovani, tra i quattordici e i diciotto anni, che quando arrivano lì cominciano a lavorare come apprendisti. In sei mesi sulle macchine imparano quanto gli serve.

 

 

 
L’impressione però, nonostante la sua prossimità ai personaggi è che non vi sia mai un spazio «privato». Ogni istante della loro vita è riconducibile al lavoro.
Ma è così, all’inizio anche io me lo chiedevo: cosa fanno a parte lavorare? Poi ho capito che non c’è niente altro. Tutto ruota intorno a questo, lavorano, mangiano, si angosciano perché non sono sicuri di essere pagati a fine anno. Da quando sono arrivato la prima volta la situazione è molto cambiata. I guadagni sono diventati più difficili, la rendita anche per i padroni delle aziende è diminuita, i profitti sono per i grandi gruppi economici ma questa è un’economia ancora popolare, basata su investimenti ridotti che però ne garantiscono l’esistenza. La vita è dura dovunque nonostante in Cina domini l’illusione della ricchezza. L’esperienza di questa regione in questo senso mi permette di tracciare una storia della Cina attraverso la sua economia. Il fiume Yang-tze rappresenta da sempre l’arteria economica del Paese mentre lo Huang-He quella politica. Il fatto che la gente si sposti per emigrare in cerca di lavoro verso Shangai segna una evoluzione importante