Si apre a Vilnius il summit della Eastern Partnership. È l’iniziativa, lanciata nel 2009 su impulso svedese-polacco, per un dialogo più strutturato tra il blocco comunitario e un sestetto di ex repubbliche sovietiche: Ucraina, Georgia, Moldova, Azerbaigian, Armenia e Bielorussia. In altri termini, la Eastern Partnership è lo strumento con cui l’Ue, squadernando gli incentivi economici e doganali previsti dagli Accordi di stabilizzazione e associazione, come dal Deep and Comprehensive Free Trade Area (Dcfta), cerca di rilanciare la sua azione a Est. Ma più che di creare l’anticamera per un futuro allargamento si tratta di rosicchiare qualche punto, di influenza economica e strategica, alla Russia. Bruxelles fatica a penetrare nello spazio post-sovietico, dove il peso di Mosca è molto consistente.

L’Ue, per mesi, ha sbandierato il vertice di Vilnius come un momento storico, tanto era convinta di riuscire a strappare all’Ucraina, il paese più importante della regione (Zbigniew Brzezinski dice che senza l’Ucraina la Russia perde il suo respiro imperiale; George W. Bush ne fece un pilastro della sua agenda internazionale), il sì alla firma delle due intese. Non è andata così. Il presidente ucraino Viktor Yanukovich ha congelato l’ipotesi, bocciando parallelamente la richiesta di scarcerare Yulia Tymoshenko, che gli europei avevano vincolato alla finalizzazione degli accordi. Bruxelles s’è detta frustrata. A Kiev, dove si sono tenute invece manifestazioni di protesta contro Yanukovich e a favore dell’integrazione nell’Ue, è accorsa anche Loreta Grauziniene, presidente del parlamento lituano, che ha incoraggiato i dimostranti. Scelta, la sua, poco diplomatica. Se non altro perché Vilnius, oltre a ospitare il vertice della Eastern Partnership, ha la presidenza semestrale dell’Ue.

È chiarissimo, comunque, che il no ucraino all’offerta europea depotenzia il significato dell’evento di Vilnius, fotografando inoltre abbastanza fedelmente il dettaglio più decisivo della partita, sull’Ucraina, ingaggiata da Europa e Russia: i soldi. I benefici squadernati dalle proposte Ue si misurano sul medio e lungo termine. Ma nel breve Kiev ha bisogno di fatti concreti, tanto la sua economia è a terra. C’è recessione, le agenzie di rating hanno tagliato più volte le valutazioni e la dipendenza dal gas russo è troppo costosa. È così che Putin, minacciando ritorsioni energetiche e commerciali, ma prospettando anche uno sconto sulle tariffe dell’«oro azzurro» e qualche finanziamento corposo, ha convinto Yanukovich a frenare sugli accordi con l’Ue. Così l’Ucraina guadagna tempo e ossigeno, anche se rinuncia a quella modernizzazione economica che l’Europa può assicurare. Ma, appunto, non nell’immediato. È la stessa logica che ha portato Yanukovich a traccheggiare sul negoziato con il Fondo monetario – che chiede riforme profonde – e a bussare alle porte dei cinesi, che hanno sganciato denaro sonante. Subito. Pechino, in silenzio, è da tempo interessata a investire a Est. L’arrivo del premier cinese Li Keqiang a Bucarest, dove lunedì e martedì s’è tenuto il vertice tra Cina e i paesi dell’Europa centro-orientale (l’anno scorso la sede fu Varsavia), conferma che si potranno fare buoni affari.

Tornando a Vilnius, c’è da segnalare che ieri Viktor Yanukovich ha confermato la sua presenza. Ci sarà qualche imbarazzo, c’è da credere, al momento delle strette di mano. Trapela intanto la notizia che Kiev potrebbe proporre un tavolo di concertazione a tre, con Russia e Ue, che assicuri una soluzione alle esigenze del paese: potenziare le relazioni con Bruxelles e mantenere un rapporto stretto con la Russia. Kiev ha bisogno di entrambe le sponde (sulla cosa ci gioca pure), ma non sarà facile convincere i russi che la strategia europea non stride con i loro interessi.

Quanto agli altri paesi membri della Eastern Partnership, a Vilnius l’Ue non avrà granché da celebrare. La Bielorussia di Lukashenko sta nel sestetto solo formalmente, l’Azerbaigian vuole al momento limitarsi a ottenere agevolazione sui visti e l’Armenia ha annunciato che a febbraio aderirà all’Unione doganale per l’ex Urss promossa da Mosca, scartando dunque il pacchetto europeo. Potrebbero invece firmarlo la Moldova e la Georgia, anche se Mosca ha fatto capire, con il bando ai vini moldavi e il rinnovato sostegno alle ex province ribelli di Tbilisi, Abkhazia e Ossezia del sud, che non gradisce l’ipotesi.