Gli osservatori attenti alle trasformazioni delle società occidentali hanno individuato due tendenze fondamentali che possono aiutarci a comprendere la giornata del Family Day. Da una parte, il ritorno delle religioni nella sfera pubblica come sfida alla globalizzazione spersonalizzante (nella versione avanzata da Habermas, come interrogativo posto dal multiculturalismo alla laicità effettiva delle nostre democrazie), dall’altra parte, il riemergere della religione come fattore di chiusura identitaria, uno strumento forte di una lunga tradizione di politicizzazione della fede.

Si tratta di due tendenze carsiche, talvolta convergenti nel discorso dei politici e degli attori religiosi, ma che si scontrano oggi con la realtà di società che vivono un processo di secolarizzazione crescente.

L’ultimo rapporto di Eurispes fotografa un Paese in cui la pratica religiosa è attestata al 25%, la tutela giuridica delle coppie di fatto è auspicata dal 67,6% della popolazione e il matrimonio tra omosessuali è accettato dal 47,8%. Questi dati non erano poi molto diversi dieci anni fa, al tempo del primo Family Day del 2007, lo erano invece il contesto politico (l’Italia nelle mani di Silvio Berlusconi) e quello ecclesiale, caratterizzato dalla linea politica «presenzialista» del card. Ruini, a sua volta forte del sostegno del «papa polacco» e poi del suo successore tedesco.

Si spiega quindi alla luce di questi cambiamenti la decisione dei vescovi di fornire un chiaro appoggio alla manifestazione del Circo Massimo senza però impegnare direttamente la Chiesa, come nei desideri di papa Francesco e di una parte dello stesso episcopato.

Per quanto riguarda i movimenti in difesa della «famiglia tradizionale», le parole d’ordine del Family Day non sono state meno intransigenti di quelle del passato, ma è nitida la percezione di essere di fronte a una galassia che si sente sempre più minoranza, un segmento della società che ha perso la sponda del governo e perfino la sintonia con il pontefice romano.

Ne è venuta fuori una manifestazione tanto pacifica e festosa nelle forme, quanto dura nei contenuti di fondo in un mélange di integrismo vecchia maniera (contro l’edonismo) e di psichiatrizzazione della società, accusata di aver perduto il senso del limite. Medicina e religione, del resto, sono andate a lungo a braccetto nella storia delle retoriche contro le «devianze» sociali e sessuali.

Senza entrare nel merito delle contraddizioni, è interessante osservare anche la permanenza dello schema della catena dei mali, secondo il quale l’introduzione dei nuovi diritti, come la stepchild adoption, porterà inevitabilmente alla pratica dell’utero in affitto e quindi allo sfruttamento delle donne più povere da parte di una presunta élite omosessuale. Dal Family Day arriva dunque un segnale forte e preoccupante che deve essere letto nel contesto del nostro tempo e non solo di quello italiano: nell’orizzonte del mondo cattolico in trasformazione, ma più in generale nella sfera delle forme assunte dal ritorno del religioso nella sfera pubblica.

Come avviene da tempo negli Stati Uniti e come è accaduto di recente in Francia in occasione dell’approvazione del mariage pour tous, le società occidentali sono attraversate oggi da movimenti, spesso “dal basso”, che si radicalizzano nella presa di consapevolezza di un cambiamento che non possono impedire e che sono espressione di un’istanza che trova consensi in maniera interclassista e di cui beneficiano quelle forze politiche, come la Lega Nord e Fratelli d’Italia, che si fanno promotrici di un certo linguaggio antimoderno, identitario e intransigente.

Si tratta di tendenze profonde, alle quali occorre rispondere sul piano discorsivo senza sottovalutare i rischi di questa politica della paura, tendenze che ci devono portare a interrogarci sul modo in cui adeguare la laicità alle nuove frontiere del diritto senza perdere la sfida culturale che deve accompagnare il cambiamento.