Per Marco Marzano e Nadia Urbinati (Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica, Il Mulino, 2013), il «ritorno delle religioni» nello spazio pubblico auspicato da Jürgen Habermas non è plausibile e neppure opportuno. Non lo è perché presuppone un’etica pubblica della laicità troppo forte e quindi irrealistica; non lo è perché non tiene conto della tendenza delle religioni a occupare spazi di potere; non può esserlo, a maggior ragione, quando si esercita in paesi nei quali non c’è un effettivo pluralismo religioso, come, per esempio, l’Italia.
È una tesi interessante e contro-corrente in una società come la nostra che paga ancora, da un lato, il retaggio storico della presenza della Santa Sede sul proprio suolo e, dall’altro, la penetrazione del «postsecolarismo» nella sua vulgata nazionale di stampo cattolico. Per fare chiarezza e comprendere i limiti della teoria di Habermas, spiegano gli autori, è quindi necessario riportare il discorso nei suoi binari e studiare le pericolose filiazioni di quel modello. Con la definizione di «postsecolare» si fa riferimento a una società che ha preso atto non solo del fatto che la religione non è scomparsa con il progredire della modernizzazione ma che, nella nostra epoca, si è innescato un movimento in direzione contraria. Nell’idea di Habermas i credenti e i gruppi confessionali sono incoraggiati a esprimere punti di vista etico-politici di matrice religiosa; lo Stato non deve più contenere la loro presenza (il modello francese), ma favorire la conciliazione dei culti in un sistema dove le diverse confessioni si confrontano nel rispetto della laicità. Alla base del ragionamento, si trova dunque la convinzione che la storia abbia modificato il modo in cui le religioni si relazionano nello spazio pubblico e proprio su questo punto si incentra la critica di Marzano e Urbinati.
Soprattutto laddove le condizioni date non possono permettere un’effettiva parità tra i culti, spiegano gli autori, potrebbe configurarsi, e in molti casi è così, una sorta di «laicità al rovescio» che identifica nella consuetudine religiosa della maggioranza un principio etico da tutelare a discapito delle altre appartenenze. Nella prima parte del volume Marzano dà sostanza a questa tesi illustrando le linee guida della riflessione sulla libertà religiosa proposta dai vertici della Chiesa italiana. Egli evidenzia come nel corso dell’ultimo secolo la posizione dei vertici ecclesiastici sia stata effettivamente modificata dal discorso democratico, ma senza risolversi in un’effettiva accettazione della laicità. Al contrario, sono stati proprio i movimenti sorti in reazione al Concilio Vaticano II a rilanciare l’offensiva della Chiesa nello spazio pubblico, facendo del cristianesimo un valore culturale, anzi il valore nazionale, l’unico argine alla deriva nichilista delle società occidentali.
In questo modo, la difesa della «libertà dei credenti» è diventata qualcosa di diverso da come la si intende in ottica liberale e di più simile alla teoria del pensatore tedesco Ernst Böckenförde sulla religione come un fondamento dello Stato liberale, di per sé incapace di dotarsi della sostanza etica che lo può tenere in vita. In questa chiave apologetica è stato utilizzato anche Habermas, per esempio nelle ultime uscite pubbliche del cardinale di Milano, Angelo Scola. Uscendo dalla teoria per entrare nella prassi, il progetto culturale – di cui mons. Ruini sarebbe stato il principale interprete – ha esercitato un’attrazione fatale non soltanto sulla politica italiana (gli anni del connubio con Berlusconi e delle pesanti concessioni sulle «questioni non negoziabili»), ma anche sulla sua giurisprudenza. Ne fornisce una dimostrazione la sentenza del Tar del Veneto (2005), nella quale si rigettava la richiesta di alcuni genitori di rimuovere il crocifisso dalle aule della scuola elementare pubblica di Albano. Nel verdetto, difeso dal governo italiano nella sede della Corte europea, il crocifisso veniva dichiarato un simbolo rappresentativo della «difesa della libertà dell’uomo» e quindi di tutti gli appartenenti allo Stato liberale.
Allora perché parlare della riconquista cattolica come di una «missione impossibile»? Come spiega Marzano, i dati sulla pratica religiosa degli italiani dimostrano che il presupposto di una ripresa del fenomeno cattolico non è giustificato, non solamente perché il processo di secolarizzazione non si è fermato, ma addirittura perché la stessa pratica religiosa è stata profondamente intaccata dal believing without belonging e dalla formazione di una sorta di Chiesa parallela a quella gerarchica e frammentata in numerosi movimenti. E tuttavia, si potrebbe sottolineare che il «postsecolarismo» ha rappresentato (in Italia) soprattutto una strategia politico-culturale che ha conquistato spazio nel discorso pubblico e conseguito risultati importanti nell’interazione con i vertici del potere. A fronte di tutto questo, risulta forse meno rilevante che l’immagine di una nazione cattolica sia in realtà una chimera.
Si aggiunga che il pontificato di papa Francesco sembra aver incrinato l’immagine monolitica del cattolicesimo «ufficiale» introducendo elementi di reale discontinuità nel discorso della Chiesa. Non c’è dubbio, è ancora presto per parlare di fine dell’«Età costantiniana», come auspicava il teologo Marie-Dominique Chenu alla vigilia del Vaticano II, e questo il libro lo mostra in maniera convincente, demolendo colpo su colpo le argomentazioni di Scola, Ruini e dei loro sostenitori, ma che ci sia stato un cambio di registro e di priorità è sicuro.
A giudizio chi scrive, la porta stretta è quella che conduce a una società «multiculturale», nella quale le religioni non siano considerate a priori come un ostacolo alla libertà individuale e men che meno uno strumento politico, o un terreno di resistenza e di definizione delle identità nazionali. Nell’età della globalizzazione e del riemergere delle intransigenze è una scommessa che le società non possono permettersi di perdere. Marzano e Urbinati ci ricordano quali siano i rischi congeniti e le storture: una lezione da tenere bene a mente.