Mentre Renzi vola in Cile, alla Festa del cinema di Roma la personale di Pablo Larrain esibisce la punta avanzata del cinema cileno (e in tv si è potuto rivedere contemporaneamente il suo No i colori dell’arcobaleno, la risposta definitiva al referendum contro Pinochet). Larrain si è confrontato con tutte le tematiche considerate tabù nel suo paese, perfino i risultati dell’autopsia di Salvador Allende (in Post mortem) e con Alfredo Castro, grandissimo interprete, ha dato un volto alle più tenebrose ossessioni e cattiva coscienza, violenza repressa ed esibita (come in Tony Manero).

Il suo ultimo film El Club gran premio della giuria a Berlino, sarà nelle sale a novembre e non mancherà di suscitare interesse e discussioni, profonda riflessione su pedofilia e silenzio della chiesa, problematiche emerse in vari paesi, su pentimento, ruolo di vittime e carnefici, espiazione, omertà. Temi universali, ma trattati da Larrain a partire da un microcosmo cileno. Il suo stile tocca i lati oscuri dell’esistenza, prendendo spunto ancora una volta da quello che nel suo paese è emerso con clamore sulla stampa e la televisione dopo le accuse al vescovo Karadima sospeso dal servizio. Nel film i protagonisti sono preti di piccolo cabotaggio, vivono a La Boca, villaggio sull’oceano al sud del Cile, senza poter più esercitare le funzioni religiose, in una casa adibita alla loro accoglienza, accuditi da una suora che funge da «carceriera».

Un piccolo club ben organizzato, regolato in modo preciso come fosse un nuovo ordine monacale (divieto di parlare con gli estranei, orari regolati dalle preghiere), ma l’indizio che i preti sotto accusa sono arrivati al punto più basso di una scala discendente è dato dal fatto che la loro principale attività consiste nello scommettere alle corse dei cani, in possesso come sono di un autentico campione. Il perfetto funzionamento del «club» verrà messo pesantemente in discussione da personaggi che appaiono improvvisamente sulla scena, un altro prete da accogliere, un povero campesino abusato fin da piccolo, padre Garcia inviato dal Vaticano con intenti inquisitori.

Abbiamo incontrato Pablo Larrain per illuminare i punti più pericolosi di questo lavoro che, dice, «vuole divertire e coinvolgere, anche se la chiave del film deve trovarla lo spettatore. Nel sistema della Chiesa uno deve chiedere perdono, fare un atto di contrizione se vuole essere perdonato, ma non conosco nessun sacerdote che abbia ammesso pubblicamente i suoi peccati». Non è nel segreto della confessione che uno ammette i suoi peccati? «Ma l’abuso è un delitto, non un peccato. La Chiesa ha due facce, una che vuole diffondere la parola di Cristo e una diversa, tutta interna. La Chiesa crede che i propri peccati vadano lavati di fronte a Dio, noi pensiamo che vadano portati in tribunale, mi aspetto che ci sia una confessione pubblica. Considero un atto di vigliaccheria se non so se uno si è pentito o no: ecco le due facce della Chiesa, un comportamento rivolto all’esterno e uno totalmente differente per il suo interno e al suo interno le cose cambiano. Ma Cristo non era due, è uno».

È inevitabile chiedere che impressione ha di papa Francesco (che tra l’altro proprio recentemente ha dissuaso alcune fedeli cilene accusatrici di un altro vescovo ad ascoltare le dicerie diffuse dai media senza verificare): «Il papa rappresenta la nuova chiesa, più vicina a noi, umile, che è capace di perdonare. Ma deve affrontare una battaglia interna, deve fare i conti con la chiesa antica, una chiesa fatta di conclave. Questa lotta produce materiale interessante per il film. La chiesa ha paura della stampa, dei media, più paura ancora dell’inferno, eppure ha bisogno del nuovo mondo digitale, deve trovare una rappresentazione».

Cosa dice della Chiesa in quanto mondo tutto maschile che affronta tematiche in cui le donne sono le principali protagoniste? ad esempio in fatto di famiglia, figli, aborto? «La Chiesa ha una tradizione maschile, vede la donna esclusivamente come madre, come sistema riproduttivo e che poi si prende cura dei figli. Non è vista neanche come oggetto di desiderio. Mi sembra difficile intendere qualunque attività umana senza la donna. È difficile cambiare, per questo è interessante inserire un personaggio femminile nel film. C’è un machismo nascosto nella chiesa».

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Il microcosmo dei preti rinchiusi nella casa mette in evidenza alcune caratteristiche di prototipi di uomini cileni: il militare, il machista decisionista, il viejo loco, perfino la suora evoca alcune caratteristiche della donna cilena sempre sorridente e altrettanto feroce. Cosa voleva che rappresentasse Alfredo Castro, musa dei suoi film? forse il lato poetico? «Il mio è un tentativo di raccontare qualcosa di universale, la stessa storia potrebbe succedere anche in Italia, in Sicilia ad esempio, con personaggi che rappresentano gli italiani. Senz’altro si crea una mappa, ma questi sono piccoli sacerdoti, di bassa estrazione non fanno parte della grande élite della chiesa. I piccoli sacerdoti spariscono. Vengono alla ribalta quelli che tutti conoscono, ma gli altri scompaiono prima di diventare famosi. Alfredo Castro, padre Vidal, è l’unico che parla di desiderio. Puoi reprimere ogni cosa ma non il desiderio, lui stesso si definisce ’il re della repressione’, a un certo punto il corpo esplode, sia etero o omosessuale, nella bolla del celibato il desiderio è esplosivo. Proprio a questo si riferisce l’incipit del film, il riferimento alla Genesi: la separazione della luce dalle tenebre. Dio dà all’uomo la possibilità di distinguere il bene dal male».

Il personaggio di Sandokan, il povero cristo che proclama a voce alta gli abusi subiti in tutti i particolari, quasi voce che grida nel deserto, innalza le sue preghiere con lo stesso fervore, mentre le orazioni dei sacerdoti procedono solo a scandire il tempo (una regola al ’club’ tra le altre): «Ho incontrato diverse vittime, sottolinea il regista, perdono il pudore, ripetono gli episodi vissuti sempre con le stesse parole come un mantra, un processo che serve a riavvolgere la memoria, con una espressione verbale come se il corpo fosse sopraffatto. Quando ho girato il film se avessi girato quelle storie di abusi così come me le raccontavano le avrei rinchiuse in un’immagine. Invece con le parole ogni spettatore può formarsi la sua immagine nella testa. Che risulta molto più violenta».