Il viaggio come desiderio di conoscenza, appagamento di curiosità, evasione dal grigiore di una quotidianità anonima: una sfida con se stesso che Max Pam (Melbourne, 1949) ha intrapreso oltre quarant’anni fa.
Il fotografo australiano si racconta con disinvoltura, senza i filtri dell’ipocrisia, a Savignano nelle giornate inaugurali della 22ma edizione del SIFest (il titolo è Specie di spazi). La sua mostra Supertourist (che è anche il titolo dell’omonimo libro appena pubblicato con Editions Bessard) – presentata in anteprima mondiale – è curata dai direttori artistici del festival, Stefania Rössl e Massimo Sordi (fino al 29 settembre).

Il viaggio come via di fuga dalla periferia di Melbourne. Prima, c’era stata la passione per il surf. Come si colloca, in questo percorso, l’incontro con la macchina fotografica?

Sì, per me che ho una storia legata alla periferia di Melbourne la fotografia è stata un modo per scappare. Ho iniziato a viaggiare a 19 anni quando sono stato a Katmandu; alle spalle, avevo il surf ad assecondato quel senso dell’avventura e del rischio continuato poi con i miei vagabondaggi. Sesso, droga e rock’n’roll, questo era lo spirito dell’epoca: mi era perfettamente consono.
Quanto alla macchina fotografica, mi ci sono avvicinato attraverso il mio istruttore di nuoto. Ero un ragazzino di 13 o forse 15 anni e lui era un pedofilo affascinato dalla fotografia. La sua tattica seduttiva era quella di farmi conoscere la camera oscura. Non so quale dio mi abbia protetto dal suo «lato oscuro», ma è riuscito a trasmettermi solo la parte buona. Sono stato fortunato perché questo interesse non si è trasformato in incubo…

Sempre a proposito di viaggio, negli stessi in anni in cui i giovani (hippy e non) partivano da Istanbul con i Magic Bus diretti in India, fermandosi magari in Indu Kush come Bruce Chatwin, a Kabul dove Alighiero Boetti aprì l’One Hotel o a Rishikesh dove anche i Beatles subirono il fascino del guru Maharishi Mahesh Yogi, tu guidavi una Volkswagen facendo un percorso inverso da Calcutta a Londra. Era il 1969 e questo viaggio è diventato anche il suo primo lavoro fotografico «Going East» (pubblicato nel 1992). Quali sono gli orizzonti che ti ha aperto?

Arrivare a Calcutta e guidare un’automobile fino a Londra è stato molto eccitante. Viaggiavo con un astrofisico inglese che era assai diverso da me. Un incontro importante, anche perché altrimenti avrei trascorso giornate intere a fumare hashish nelle camere d’albergo. Aidan Sudbury con il suo interesse per l’aspetto selvaggio dell’India, la sua spiritualità, l’architettura, la cosmologia e anche la sua meravigliosa bellezza, mi ha aperto gli occhi.
Sono stato fortunato pure in questo caso. Nella mia famiglia c’è una sorta di mitologia per cui se si hanno i denti con uno spazio in mezzo, come me, si è fortunati. Mia figlia è nata con lo stesso spazio fra i denti, ma le abbiamo fatto fare un intervento e non sono sicuro che sia stata una buona idea… Comunque, tornando a Aidan: era un po’ più grande di me, avrà avuto 26 anni, aveva studiato a Cambridge nelle migliori scuole private inglesi, insomma apparteneva all’upper class quando io non ero che un poveraccio della working class australiana. Una volta ci siamo fatti un acido insieme e lui è completamente andato fuori di testa, così quando decidevo di assumere droghe dovevo farlo di nascosto da lui, con altra gente. Sembravamo quasi marito e moglie, ma la nostra era una strana coppia.

Il linguaggio visivo che costruisci, trovando un equilibrio tra l’idea di cultura e l’«ossessione estetica per gli oggetti» è sempre autobiografico…

Molte persone fotografano perché gli dà quella libertà di scoprire se stessi. Se sei un fotografo vero, autentico e originale, sei in contatto con te stesso, lavori con la tua testimonianza personale e giochi con la tua stranezza. Solo tu puoi sapere quale vita interiore stai vivendo.

Quali sono i sensi che sono più all’erta quando viaggi?

Quando viaggi da single, sei completamente in solitudine, lasci i tuoi amici, la famiglia e la prima cosa con cui ti devi confrontare è questa tua solitudine. Il metodo che ho usato per combatterla è stato sognare di andare a letto con una ragazza del posto. L’amore è molto importante per me.
Il punto è che nella mia cultura, ovvero quella australiana, è molto difficile comprare l’amore. In Asia, invece, la vita sessuale punta proprio a persone così, ragazzi solitari. Esiste una grande industria del sesso con vari piani di controllo, da quello più raffinato a quello più basso. Ognuno può fare la propria scelta. Per me, comunque, si trattava solo di cercare l’amore. Questa è la sensibilità che si acuiva in viaggio. Mi piaceva così tanto la cultura dell’Asia centrale che per me, lì, andare a letto con una persona di sesso femminile era come andare a letto con la cultura stessa di quel luogo. Un processo di osmosi.

Viaggio, sesso, desiderio e identità sono alcune delle tappe proposte dal tuo nuovo lavoro «Supertourist». Come nasce questo progetto?

Supertourist è un lavoro che raccoglie tutta la mia produzione fino al 2013. È una ricognizione del mio archivio. Quando si lavora con il proprio archivio ci si chiede quale sia la ricerca fatta in maniera olistica e quale l’aspetto di meraviglia. Chiunque ha del materiale meraviglioso nel proprio archivio, il problema è trovare la chiave. In Supertourist ci sono alcune fotografie del tempo in cui frequentavo la scuola d’arte a Londra, immagini che sono la base del mio linguaggio e della mia metodologia. Ma ci sono anche scatti che risalgono a sei mesi fa. L’altro divario presente nel volume è che ho smesso di fotografare in bianco e nero alla fine del secolo, dal 2000 in poi uso solo il colore.

Parlando di tecnica e di mezzi: è casuale o segui una metodologia nell’utilizzo di macchine fotografiche usa e getta, nell’inserimento di immagini fotocopiate, francobolli, timbri… accanto a stampe tradizionali o digitali, in bianco e nero o a colori?

Si tratta per lo più di casualità. Naturalmente se si viaggia con una buona macchina fotografica o una robaccia, l’esperienza è diversa, come pure i riscontri estetici. Quale sia meglio è difficile dirlo, diciamo che risponde a una teoria del caos. Sappiamo tutti che, ad esempio, con una macchina digitale non c’è amore né mistero. Lei sa tutto di noi e noi sappiamo tutto di lei. Invece, con la macchina fotografica analogica, quindi con la pellicola, c’è molto più divertimento, oltre che enigma e gusto di scoperta. Lavorare con strumenti differenti significa anche avere una varietà maggiore di descrizione del mondo.

Il libro fotografico è stato sempre il mezzo di maggior diffusione del tuo lavoro. Inevitabilmente al momento dello scatto, che sembra procedere con immediatezza e impulsività, segue una fase più riflessiva in cui si colloca la scelta e l’accostamento/associazione delle immagini. Spesso le tue immagini sono accompagnate da appunti… La scrittura è subordinata alla fotografia o è ad essa complementare?

Alla scuola primaria ero un pessimo studente, non esattamente dislessico, ma con problemi di apprendimento. Ricordo ancora la prima lezione di algebra, per me x+y=z era incomprensibile. Una materia di cui continuo a non capire nulla. La letteratura è stata la mia libertà, la mia casa, mia madre e mio padre, la parte funzionante del mio cervello pazzo. Mi ha sempre fatto sentire con i piedi su un terreno stabile e significava anche avventura, amore, azione.
Avevo sette anni quando il maestro per tre mesi ci lesse tutto Oliver Twist. È stata un’esperienza importante che mi ha dato la possibilità di vivere nella Londra del XIX secolo e abitare i personaggi stessi. La letteratura, per me, è ancora più importante della fotografia. Quanto alla domanda se la scrittura sia subordinata o complementare nel mio lavoro fotografico, direi che è complementare. È come l’uovo con la gallina!