C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico, in questa storiaccia che sta affiorando dai sottoscala dell’Atac, l’azienda di trasporti del Comune di Roma. Di nuovo c’è la scellerata genialità d’aver finanziato segretamente numerose consorterie politiche (d’ogni colore, sembra) con l’incasso di milioni di biglietti clonati, venduti come quelli regolari (a un euro e mezzo l’uno, per la cronaca). D’antico, il fatto che a stampare i ticket falsi ci sia una misteriosa tipografia mimetizzata all’interno di un ufficio aziendale, con tanto di macchinari, fogli cartonati, matrici, inchiostri, nonché poligrafici in camice bianco: come Totò e Peppino che stendono ad asciugare le banconote falsificate, con tanto di mollette appese ai fili.

Il sindaco Marino ha detto che bisogna «prendere i colpevoli e buttare via la chiave». Intanto, per favore, li mandi subito a casa. Lo faccia. E’ gente annidata ai vertici dell’azienda da anni e anni, transitata con disinvoltura e sospetta leggerezza da un’amministrazione all’altra, pagata con stipendi che gridano vendetta. Nessuno sapeva, nessuno dubitava, nessuno diceva? Via, è possibile crederlo? Centinaia e centinaia di dirigenti, funzionari, quadri, assistenti e consulenti: tutti ignari? No, tutti (a vario grado) partecipi, complici, omertosi. E tutti silenziosamente correlati a un unico sistema di coperture politiche. Le stesse che permettevano ai partiti (speriamo non tutti) di beneficiare dei proventi della truffa. L’Atac è un’azienda importante, è la più grande d’Italia con il suo miliardo di passeggeri all’anno e con i suoi dodicimila addetti. Eppure, eccola lì, preda di dirigenti felloni e guastatori politici, affratellati da gestioni rovinose, inefficienze, sprechi e sciatterie, e soprattutto da malversazioni e ladrocinii. Non erano bastati i finti acquisti, le fatturazioni fantasiose, le forniture gonfiate, gli appalti truccati, le assunzioni clientelari di amici, compari e camerati. Ora emerge anche quest’ultimo accaparramento milionario: soldi pubblici incamerati (e spesi) per fini privati.

Stiamo assistendo alla liquefazione di un apparato strategico di una città smarrita e stremata, permanentemente a rischio di collassare: una città che si è voluta definire capitale ma che in concreto si dimostra largamente deficitaria. E già in queste ore eccitate e indignate c’è chi in Campidoglio ci viene a spiegare che per risollevare il destino declinante di Roma è arrivata l’ora di privatizzare tutto, trasporti, acqua, rifiuti, patrimonio, farmacie comunali, assistenza e accoglienza. E’ una ricetta che non funziona: è dimostrato. Al contrario, bisognerebbe restituire al pubblico ciò che al pubblico serve. Per esempio, il trasporto gratuito, la mobilità come diritto-bene comune. Si può fare. C’è solo da riversare sul miglioramento del servizio quanto finora è stato distribuito per pagare tangenti e corruttele.