Il vecchio taxi Peugeot ha scarrozzato per anni libanesi e stranieri per tutto il paese e mostra, dentro e fuori, i segni del tempo e dell’usura. Tawfiq Abu Daus però non ha alcuna intenzione di sostituirlo con un’auto più nuova. «Finché dura me la tengo, un’automobile costa troppo, anche se usata», dice stringendo tra due dita ingiallite dalla nicotina una sigaretta che aspira con forza.

LE PIEGHE E LE RUGHE del viso confermano impietosamente l’età avanzata. Tawfiq dovrebbe essere in pensione ma non può permetterselo e per gran parte del giorno va in cerca di clienti tra Krayteh, Manara e Ain Mreiseh. Lo si trova spesso fermo in attesa all’angolo tra via Jeanne d’Arc e la centrale via Hamra.

Proprio lì un ristorante ha cambiato più proprietari negli ultimi anni, passando dalla cucina tradizionale libanese alla pizza e, qualche settimana, è diventato un Sushi Bar assecondando una tendenza globale. «Vediamo quando dura questo», commenta con cinismo l’anziano taxista per sottolineare i ripetuti fallimenti delle gestioni che si sono succedute, un piccolo esempio dell’estrema fragilità dell’economia libanese che sta vivendo una fase molto delicata.

I tentativi, sino ad oggi senza successo, di uscire dall’impasse per la formazione del nuovo governo e l’abbattimento dell’aereo da trasporto russo durante l’ultimo attacco aereo israeliano alla Siria, occupano le prime pagine dei giornali di Beirut. «Voi giornalisti pensate davvero che ai libanesi interessi quanto accade in Siria, tra i sauditi e gli iraniani o tra (il premier incaricato) Saad Hariri e (il movimento sciita) Hezbollah?», ci domanda Tawfiq tra sarcasmo e amarezza.

«CI INTERESSA come tirare avanti, la vita si è fatta impossibile, ci vogliono tanti soldi. Le nuove tasse, i prezzi alti, i turisti che non arrivano come prima, sono questi i problemi che ci occupano la mente». L’amico taxista ha dipinto un quadro più nero della realtà?

Sappiamo bene che la situazione regionale, le tensioni e i conflitti, in un modo o nell’altro finiscono per pesare sui destini del Libano alla cui porte per anni ha bussato la guerra nella confinante Siria. Nessuno in questo paese, che ha già vissuto una sanguinosa guerra civile (1975-1990) , subito negli ultimi anni attentati terroristici e accolto oltre un milione di profughi siriani, può considerare «irrilevante» quanto accade in Siria. Certo è che le cose vanno molto male per l’economia libanese e per gran parte della popolazione.

SOFFRE ORMAI ANCHE la classe media che, come accade un po’ ovunque, arretra, perde le sue sicurezze, si impoverisce. E non deve ingannare la movida notturna che, da Hamra a Mar Michael, nella zona musulmana come in quella cristiana anima la più frizzante e liberal delle capitali arabe. A permettersela è solo una minoranza di libanesi e di stranieri.

«Credo che tanti siano nella mia condizione. Faccio due lavori e guadagno quello che mi basta per mangiare, pagare le bollette e l’affitto. I divertimenti non posso permettermeli», ci dice Amir, commesso in un negozio di calzature. È la vita che potrebbero raccontare tanti libanesi, fatta di sacrifici non ripagati da servizi pubblici efficienti. Le interruzioni dell’energia elettrica, solo per citare il caso più noto, sono frequenti persino a Beirut e più volte al giorno.

SI FANNO INSISTENTI le voci che vogliono il Libano, senza governo da mesi, vicino al collasso. Due giorni fa il capo dello Stato Michel Aoun è dovuto intervenire per smentire con forza che la lira libanese stia rischiando la stessa sorte di quella turca. Le sue parole non hanno convinto.

Il debito pubblico è salito del 4,3%, a 83 miliardi di dollari, nei primi sei mesi del 2018 rispetto ai 79 miliardi dello stesso periodo dell’anno scorso secondo This Week, una pubblicazione del gruppo Byblos Bank. È dall’inzio degli anni ’90 che il Libano vede lievitare il debito pubblico, solo per il 40% nelle mani dalle banche commerciali del paese.

Rallenta anche la crescita, all’1,7% quest’anno rispetto all’1,9% del 2017, prevede un rapporto dell’Economist Intelligence Unit (Eiu), a causa della mancata formazione del nuovo governo e dell’instabilità frutto dalle tensioni locali e regionali. L’Eiu ha rivisto al rialzo le previsioni sull’inflazione e avverte che la lira si deprezzerà ancora rispetto all’euro e al dollaro.

Butta acqua sul fuoco il governatore della Banca centrale Riad Salameh che, come fa il presidente Aoun, ripete che non vi è minaccia immediata per la valuta nazionale grazie, sostiene, alle riserve in valuta estera. E sottolinea l’importanza delle riforme fiscali ed economiche avviate per ridurre il deficit di bilancio.

ALTRI INVECE non condividono queste rassicurazioni e insistono che la crisi è grave e concreti i pericoli per l’economia nazionale. «Di fronte a una gestione economica che rivela le sue carenze, i politici libanesi, cavalcando il populismo che voi europei ora conoscete bene, preferiscono indicare come causa di ogni problema la presenza di tanti rifugiati siriani in Libano (un milione registrati e almeno altri 500mila «illegali», ndr) lasciando credere alla fascia a basso reddito e più povera della popolazione che i profughi tolgono lavoro e risorse ai libanesi», ci spiega Amer Mohsen, un’analista del quotidiano al Akhbar.

«La verità è che il Libano è fortemente indebitato e l’entità di questo debito e lo scarso peso del paese nella politica regionale potrebbero spingere i suoi abituali sostenitori economici a tenersi a distanza», aggiunge Mohsen riferendosi all’Arabia saudita.

«In passato – aggiunge l’analista – durante crisi e guerre, come quella 2006 (quando Israele ha bombardato e invaso il Libano per diverse settimane, ndr), Riyadh è intervenuta per salvare il Libano, le sue finanze e la sua valuta. Ora esita a farlo perché pensa che il suo aiuto finisca per dare una mano a uno dei suoi nemici, Hezbollah».

IN SOSTANZA LA MONARCHIA saudita dopo la vicenda di quasi un anno fa, tra dramma e commedia, dell’alleato premier sunnita Saad Hariri, non ha alcuna intenzione di investire, di fatto di regalare, miliardi di dollari senza ottenere vantaggi politici e diplomatici. All’inizio di novembre 2017, Hariri nel tentativo maldestro di favorire i disegni dei sauditi in Libano e colpire il movimento sciita libanese Hezbollah alleato di Tehran, diede clamorosamente le dimissioni mentre si trovava nella capitale saudita. Lanciò inoltre accuse durissime alla Siria e all’Iran sollevando un polverone enorme.

Dimissioni che altrettanto clamorosamente ritirò qualche settimana dopo al rientro in Libano. I suoi avversari, Hezbollah in testa, non affondarono i colpi. Non solo non ne chiesero l’uscita di scena politica ma dopo le elezioni dello scorso maggio, dalle quali Hariri è uscito gravemente ridimensionato, lo hanno riproposto come primo ministro di un governo che però non è ancora nato.

«La vicenda di Hariri e la vittoria elettorale di Hezbollah – spiega Mohsen – rendono riluttanti l’Arabia saudita e le altre monarchie del Golfo a intervenire per assicurare il sostegno finanziario di cui ha bisogno il Libano. Sanno che finirebbero per garantire la stabilità a un esecutivo formalmente diretto da Hariri ma in realtà guidato da Hezbollah negli aspetti più decisivi del programma. E anche Usa e Europa non sembrano intenzionati a soccorrere i libanesi. La bancarotta perciò è un rischio reale, nonostante le smentite dei politici».