Primo di tre volumi delle memorie di Susan Sontag, Rinata Diari e appunti 1947-1963 (a cura di David Rieff, traduzione di Paolo Dilonardo, nottetempo, pp. 358, euro  22,00) è la cronaca degli anni cruciali dell’apprendistato, quelli tra il 1947 e il 1963, durante i quali la scrittrice statunitense si allontanò progressivamente dagli Stati Uniti per raggiungere la Francia. Rientrata a New York, nel giro di poco tempo si sarebbe trasformata in un’intellettuale tra le più influenti del secondo Novecento.

Era nata con il nome di Susan Rosenblatt a New York nel 1933. Alla morte del padre, nel 1938, la madre trasferì la famiglia a Miami, poi a Tucson e infine, dopo aver sposato Nathan Sontag, a Los Angeles. Nel 1947, all’inizio dei suoi diari, ha quindici anni e rivela già la sua insofferenza nei confronti della madre, del patrigno e della vita scialba di una famiglia come tante: «Annoterò tutto il ripugnante spreco di oggi», scrive nel 1948. Solo qualche settimana prima si era chiesta: «Cosa significa essere giovani e diventare improvvisamente consapevoli dell’angoscia, dell’urgenza della vita?»: la sua non era una domanda retorica. Era piuttosto l’espressione dell’inquietudine di un’adolescente che si prende forse troppo sul serio e che si risponde sfornando una lista dettagliata di spunti sui quali riflettere, più avanti tradotti negli innovativi scritti sull’arte, sulla letteratura, sul cinema, sulla politica, che conosciamo.

Le risposte ai suoi interrogativi distillano in un colpo solo l’atto di osservare, di descrivere e di ragionare, raccogliendo il pensiero in frasi fulminanti e precise, in un periodare sia fluido sia epigrammatico. «Ma le considerazioni architettoniche o estetiche (o logiche – è lo stesso!) – scrive nell’ottobre del 1956 – non possono essere le sole a determinare la scelta di un sistema filosofico rispetto a un altro. In questo caso non ci sarebbe una metafisica vera o falsa». Lungo tutto il diario interroga gli scritti di André Gide, Franz Kafka, Thomas Mann (che andrà a trovare), James Joyce, Djuna Barnes, ma il suo scopo è sempre tornare a se stessa, interrogarsi sui libri da leggere e sulla musica da ascoltare per nutrire una voracità che testimonia la sua urgenza esistenziale.

La sua mania per le liste
C’è una gran fame di vita e di apprendistato culturale nei diari di Sontag, e c’è il segno prepotente di una vocazione che prima di esprimersi vuole sicurezza. La sua mania per le liste o la passione per la tradizione culturale europea le servono a nascondere la cognizione della propria debolezza e la ricerca di un’armatura solida che la difenda dalla possibilità di venire spiazzata dagli altri. È ambiziosa, Sontag, e non è un’illusa: sa che il suo temerario percorso di formazione comporterà a ogni tappa la necessità di misurarsi con nuovi strumenti, dunque lavora e studia con dedizione, mostrando una fiducia e una risolutezza che rimandano all’eroe americano per eccellenza, il grande Gatsby: curiosamente, perché l’America lei avrebbe voluto lasciarsela alle spalle. Nel tentativo di trovarsi sempre all’altezza degli obiettivi che ha davanti, Sontag adotta delle maschere oppure cede alla sbruffoneria, ma finisce spesso per ritrovarsi sola, e allora si tortura nel segreto del suo diario.

«Io e Gide abbiamo raggiunto una comunione intellettuale così perfetta che sento le doglie per ogni pensiero che lui dà alla luce!… il libro non l’ho semplicemente letto, l’ho creato io stessa», scrive nel 1948 a dispetto di ogni pudore. Già l’anno successivo, a sedici anni, si sarebbe iscritta all’Università di Berkeley, per passare poi rapidamente a quella di Chicago, dove, incontrato il sociologo Philip Rieff, nel 1950 lo sposa.

Nel 1952, dopo la nascita dell’amatissimo David (che ora cura la pubblicazione dei diari), si trasferisce a Boston e, mentre il marito insegna all’Università di Brandeis, inizia la specializzazione nel Connecticut. L’irrequietezza, già allora inequivocabile, la spinge a lasciare presto gli studi, ma solo per riprenderli poco dopo a Harvard. Da quel momento in poi la sua vita è un susseguirsi di scossoni: ricevuta una borsa di studio parte da sola per Oxford, ma dopo qualche mese va a Parigi per raggiungere una ragazza che chiama H, ovvero Harriet Sohmers, della quale è innamorata fin dai tempi di Berkeley.

La passione, inaspettata e violenta, la spiazza al punto che le critiche di Sohmers le appaiono come «continui attacchi al senso della mia identità». E così, accanto all’eccitazione di un nuovo sé e di un nuovo mondo, quello dei gay e degli espatriati di Parigi, Sontag scopre soprattutto la propria vulnerabilità, il suo essere una donna sbilenca.
In una fotografia del 1958, che le ritrae proprio a Parigi, Sohmers viene avanti con nonchalance, un taglio di capelli e un abbigliamento irresistibili, lo sguardo sfuggente; alle sue spalle Sontag avanza sorridente, ma infagottata in abiti tristi e fuori moda. Quando, nel 1963, e cioè sul finire di questo primo volume dei diari, Sontag pubblicherà Il benefattore, il suo romanzo d’esordio (ovviamente sperimentale), e comincerà a affermarsi come autrice di saggi originali, quella ragazza goffa lentamente si eclisserà per far spazio all’icona dello stile newyorchese più cool. Il diario, tempestato com’è di embrioni di ragionamento, nel frattempo ha registrato tutto: «Lo spazio percettivo è lo spazio del contenuto – delle differenze fondamentali tra destra + sinistra, alto + basso. Lo spazio metrico è puro, incolore, liscio, atono vuoto». E ancora: «La moderna dislocazione della sensibilità deriva dal fatto che la nostra esperienza dello spazio è ancora percettiva, anche se non crediamo più che le nostre percezioni – la nostra esperienza – siano vere».

«Ho interrogato Dio»
Per Sontag il diario non è solo il luogo dove – come scrive – «creo me stessa» ma soprattutto uno spazio di elaborazione dell’esperienza: riporta, per esempio, l’emozionato resoconto della visita che nel 1949, ancora adolescente, fece a Thomas Mann («Oggi pomeriggio alle sei io, E e F abbiamo interrogato Dio»), resoconto che nel 1987, ormai affermata come scrittrice, avrebbe trasformato in un ironico saggio autobiografico intitolato «Pellegrinaggio». E scopriremo che i semi di «Contro l’interpretazione», lo scritto del 1964 che la rese protagonista del dibattito sul postmoderno, in realtà germogliavano nel diario fin dal 1956. «Rafforzando un po’ il mio ego – come attraverso il fait accompli offerto da questo diario – conquisterò la certezza di avere anche io (io) qualcosa da dire, qualcosa che deve essere detto».