Indici d’ascolto lievemente più alti di quelli del 2013, recensioni delle cerimonia che ne lamentano unanimemente la noia (l’approccio soft, da vecchio «pro», della conduttrice Ellen DeGenres faceva rimpiangere lo spirito volgare e completamente fuori posto che Seth McFarlane aveva portato al Kodak Theater l’anno scorso), l’impressione di un rituale così meccanizzato e preventivamente svuotato di sorpresa che pare guidato da un pilota automatico. Oscar «storico» o no, per via del premio a 12 anni schiavo, la fiacchezza del tutto era visibile persino negli spot pubblicitari che, per qualità e brand (JC Penney, la micidiale saponetta Dove, il migliore era quello della Cadillac..), non potevano nemmeno lontanamente competere con quelli del Superbowl, l’unico evento televisivo più seguito degli Academy Awards.

Aggirandosi tre le file del pubblico (come fa nel suo talk show pomeridiano), in una successione di abiti maschili da sera neri e bianchi, DeGenres intendeva forse imprimere un’aria più informale, meno «scritta» della serata. In realtà – dal selfie di gruppo che ha fatto temporaneamente saltare Twitter, alle pizze consegnate in sala a metà maratona – il tutto sembrava artificioso comunque. Tra Fantomas e surrealismo francese del primo novecento il decor del palcoscenico, che gli autori della serata Craig Zadan e Neil Meron avevano popolato di luminescenti statuette di Oscar a grandezza d’uomo su sfondo nero. Bill Murray (che ha ricordato Harold Ramis), Jessica Biel e Jamie Fox e Jennifer Lawrence sono stati tra gli unici presenters a contrastare lievemente la dittatura del suggeritore elettronico.

È stato più un dolore che un piacere, vedere Kim Novak con l’aria un po’ confusa, deformata da una mostruosa plastica facciale, e Sidney Poitier (uno dei grandi protagonisti della desegregazione hollywoodiana) che faceva fatica a leggere il testo precotto che gli avevano affibbiato. Tra le cose peggiori di quest’edizione l’abituale tributo ai talenti scomparsi nell’arco dell’ultimo anno (preceduto da un’apparizione di Bette Midler che cantava Wind Beneath My Wings) che, grazie a una soluzione grafica che gridava vendetta, collocava i ritratti di ognuno direttamente in paradiso, su uno sfondo biancastro tipo nuvole.

All’annuncio della sua vittoria, nel 1998 per La vita è bella, Roberto Benigni aveva riservato ai membri dell’Academy una classica sceneggiata all italian, scalando le poltrone della sala mentre si faceva largo verso il palco dove lo attendeva Sofia Loren. Molto più low key, accettando l’Oscar di miglior film straniero, Sorrentino ha ringraziato «le sue ispirazioni»: Federico Fellini, Martin Scorsese, Diego Maradona, Roma e Napoli… Il riferimento napoletan/calcistico non sarà stato chiarissimo ai presenti. D’altra parte, notano in modo poco generoso Brooks Barnes e Michael Cieply sul New York Times di ieri quella di miglior film straniero è «ormai diventata una categoria secondaria degli Oscar, perché qui pochissimi guardano i film con i sottotitoli». Sempre impietosi, i due giornalisti, che spesso esprimono un punto di vista sinistramente simile a quello di un executive hollywoodiano di media statura, hanno anche notato che «La grande bellezza ha incassato solo 2.2 milioni di dollari dalla sua uscita americana, il novembre scorso». La vittoria di Sorrentino, e l’undicesimo Oscar di miglior film straniero per l’Italia, era stata ampiamente anticipata nelle scorse settimane.

In una serata che non si è distinta né per eventuali sorprese tra i premi né per l’originalità o lo spirito della cerimonia, la conduttrice Ellen DeGenres aveva condensato con una battuta sapiente nel suo monologo d’apertura il succo di come le cose sarebbero andate a finire tre ore dopo: «La prima possibilità è che 12 anni schiavo vinca l’Oscar di miglior film. La seconda è che siamo tutti razzisti».

Dopo aver fatto man bassa degli Independent Spirits Awards, sabato pomeriggio a Santa Monica, il film di Steve McQueen, tratto dal memoriale di Solomon Northup, ha vinto l’Academy Award più ambito, quello di miglior film dell’anno, insieme a quelli per la miglior sceneggiatura non originale (John Ridley) e per la miglior attrice non protagonista (Lupita Nyong’o). Gravity, l’avversario principale di 12 anni, ha conquistato gli Oscar per quasi tutte le categorie tecniche (fotografia, montaggio, suono, montaggio sonoro, effetti speciali…) e quello di miglior regista per Alfonso Cuarón. Il kolossal sci-fi esistenzialista della Warner Brothers e l’art movie sullo schiavismo distribuito dalla Fox Searchlight hanno dominato la serata. Un grosso riconoscimento quindi – insieme agli Oscar per il cartoon Disney Frozen (miglior film animato a miglior canzone) – per il cinema americano sostenuto dagli studio. Gravity e Frozen sono anche campioni d’incassi. 12 anni schiavo non può competere con i più di settecento milioni di dollari di Gravity e il miliardo e più di Frozen, ma i suoi sessanta milioni in biglietti venduti sono un traguardo economico importante per un film distribuito in meno sale e su un soggetto non facile.

oscar blanchett mbm
Altre conferme dei pronostici: miglior attore protagonista a Matthew McConaughey per Dallas Buyers Club e miglior attrice a Cate Blanchett, per Blue Jasmine. Lui ha ringraziato Dio (in uno dei discorsi più simpaticamente surreali della maratona televisiva), lei si è distinta per antipatica diplomazia seppellendo il nome di Woody Allen (sceneggiatore e regista del film che l’ha fatta vincere) in una lista che includeva uffici stampa, agenti di ogni sorta, parrucchieri, truccatori e tutti i membri della Sydney Theater Company. Jared Leto, vincitore del premio per il migliore attore non protagonista per Dallas Buyers Club, ha portato un tocco di news sul palcoscenico citando l’Ucraina e il Venezuela. 50 Feet of Stardom ha vinto nella categoria di miglior documentario, un contentino per Harvey Wenstein, marginalizzato a questo Oscar (i suoi August Osage County e Philomena non hanno preso nulla) come l’altro abituale produttore/mattatore della cerimonia, Scott Rudin, che quest’anno non è andato da nessuna parte con Inside Llewyn Davis.